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Attualità

Il conflitto e la coscienza (di classe)

Il breve articolo di Girolamo Schiera ha il fondamentale pregio di parlare icasticamente all’anima epistemologica della nostra professione, descrivendo uno scenario necessitato dal languire di chiavi di lettura transdisciplinari che non siano piatte e indulgenti.

Ci stimola a maturare una rappresentazione complessiva e razionale del mondo in cui operiamo come professionisti e viviamo come persone, per attivare una mobilitazione affettiva; contro lo spirito del neocapitalismo (finanziarizzato e tecnicistico) ci incoraggia a svilupparne uno nuovo, che valorizzi pratiche anti-economiche e di legame.

L’intelligenza pacificatrice che il collega invoca, serve a neutralizzare antagonismi surrettiziamente provocati, per liberare e concentrare tutte le risorse critiche contro un paradigma che ci appare scontato e di cui tutti siamo attori, vittime e colpevoli ad un tempo.


Errori interpretativi nell’analisi degli eventi più recenti

Negli ultimi mesi gli psicologi appartenenti alla nostra associazione #dallastessaparte hanno animato un dibattito su alcuni temi che riguardano la professione: ricordo, tra i tanti, la sospensione dall’esercizio della professione per inadempimento dell’obbligo vaccinale, l’endorsement ufficiale del nostro Ordine Professionale nei confronti di una compagine di governo, la riformulazione del codice deontologico, il sistema ECM, la burocratizzazione della professione, il bonus psicologico.

Durante le nostre discussioni più appassionate è capitato di trascendere nella critica personale nei confronti di questo o quel personaggio politico, cui venivano attribuite qualità personali negative.

Io penso che uno sfogo emotivo sia comprensibile durante una conversazione disimpegnata, ma è un atteggiamento gravemente limitato e fallace se contamina, o addirittura sostituisce, le argomentazioni scientifiche.

Invece, chi esercita la psicoterapia, come gran parte di noi, nella pratica professionale non adopera strumentalmente giudizi di valore sulla persona.

Ad esempio, quando ricostruiamo le dinamiche familiari che hanno generato un malessere in un singolo elemento o nell’intero sistema, per nessuno di noi è rilevante considerare un genitore malvagio o un figlio cattivo o una madre egoista.

Sappiamo sospendere il giudizio, ci riserviamo il giusto tempo per riflettere e rimodulare il primo inevitabile moto emotivo spontaneo.

Quasi sempre poi, procedendo con la raccolta delle informazioni, troviamo che anche il peggiore degli individui con cui abbiamo avuto a che fare professionalmente, è stato segnato da esperienze di profonda sofferenza. Anche a partire da questa comprensione prende avvio la nostra strategia d’intervento.

Siamo dunque addestrati a mettere da parte il giudizio sulla moralità dei nostri pazienti e decodificare il sistema di vincoli (storici, personali, ambientali, familiari, culturali, economici) che possono arrivare a “costringere” un soggetto a comportarsi in una determinata maniera, pur nociva per gli altri e per se stesso.

Tuttavia, quando la discussione si incentra sul comportamento di ampi aggregati di individui o di istituzioni, non sempre riusciamo a mettere da parte un secco giudizio morale, soggettivo, emotivo e personale sui singoli attori.

Credo che un eccesso di semplificazione rischi di avviare ricostruzioni e analisi imprecise della realtà.

Detto in altri termini, soggettivizzare dinamiche oggettive deforma l’analisi dei fatti in un racconto favolistico, utile soltanto a scaricare rancore e frustrazione.

È un grave abbaglio che ci può indurre a indirizzare le nostre energie e il nostro impegno su falsi bersagli, adottando strategie innocue, a volte addirittura predisposte dalla nostra controparte.

Quest’anno siamo stati personalmente colpiti da azioni repressive e oppressive che, a mio parere, sono soltanto l’ultima drammatica evoluzione del conflitto di cui noi siamo la parte soccombente.

Quindi, nonostante le migliori intenzioni e le migliori competenze, l’assetto mentale che abbiamo descritto rischia di rendere irrilevanti le nostre azioni contro il sistema di potere che a volte ci soverchia.

Riusciamo invece a formulare una griglia di interpretazione rigorosa e coerente, che prescinda dall’attribuire qualità morali ai protagonisti delle più recenti e tristi vicende?

Proviamo ad accantonare l’impulso ad attribuire intenzioni cattive agli attori che la dirigono, e consideriamo la società come un sistema sottoposto a vincoli storici, culturali, ambientali, economici.

Ciò che oggi ci colpisce personalmente è il “sintomo” e non la malattia, il problema generato da una serie di elementi che lo precedono causalmente, l’ultimo anello di una catena di eventi: il più superficiale e manifesto.

Se questo ragionamento appare utile e razionale, proviamo a individuare i vincoli di contesto che hanno prodotto l’attuale situazione.

Nel prossimo paragrafo ci soffermeremo su due elementi che ritengo molto utili per costruire la nostra cornice interpretativa e che riguardano:

  1. il dispositivo capitalista in cui siamo immersi e che abbiamo inevitabilmente assimilato;
  2. le dinamiche di lotta di classe, di cui siamo soggetti soccombenti.

Infine proveremo a elaborare una strategia convincente che ci consenta di mettere al servizio della collettività i nostri specifici strumenti concettuali e operativi.

Una cornice interpretativa

Abbiamo concordato di “mettere da parte i sentimenti” per elaborare un’analisi razionale delle cause dell’attuale situazione.
Adesso proviamo a elaborare un piano d’azione efficace.

Il dispositivo capitalista

Occorre dunque costruire uno strumento affidabile per decodificare l’attualità: una cornice interpretativa coerente e razionale per comprendere i fattori socioeconomici e culturali che incidono nella soggettività dell’individuo.

Possiamo essere d’accordo nel considerare gli individui e la società come sistemi dinamici, sottoposti a vincoli di varia natura e intensità, interni ed esterni, che ne influenzano di volta in volta lo stato di equilibrio.

I due livelli – individuale e sociale – si influenzano a vicenda: l’individuo viene condizionato da vincoli socioculturali e, a propria volta, dà forma alla società.

Le regole interpretative e di funzionamento utili per comprendere il livello individuale e di piccolo gruppo non sono sempre adatte quando l’indagine si sposta al livello di grandi raggruppamenti di individui.

Secondo Mignosi (2020) «lo sguardo psicologico (sulla soggettività) deve essere inscritto in un quadro strutturale e sovrastrutturale» (p. 22).

Accogliamo il suo suggerimento e adoperiamo «il paradigma dello strutturalismo costruttivista» di Bourdieu (1972; 1992).

«Un approccio che [tiene] conto sia delle strutture (e sovrastrutture), quali determinanti esterne al soggetto che s’impongono su di esso, orientandone i comportamenti, sia delle scaturigini soggettive a partire dalla quali è possibile costruire una conoscenza della realtà»
[…]
«La cultura e i suoi dispositivi (dai classici mezzi di produzione alle norme che ordinano i nostri modi di vivere) agiscono attraverso l’individuo e ne intenzionano la conoscenza»
[…]
«I rapporti di forza, gli strumenti attraverso i quali si realizzano, i principi culturali, costituiscono i vincoli nei quali si esprimono le soggettività» (Mignosi, 2020, p. 22).

«Forze sovraindividuali, non naturali, […] agiscono sistematicamente e costrittivamente sui soggetti» (p. 23).

Permeando cultura e società, per mezzo della famiglia e della scuola, i fattori socioeconomici agiscono direttamente sulla struttura identitaria stabile degli individui, determinando così la percezione della realtà interna ed esterna.

Si tratta di dispositivi mentali invisibili che tutti noi agiamo e che ci agiscono: un sistema di «schemi di percezione, di valutazione e di azione» (p. 34), che mediano il rapporto tra noi e il mondo e che sono fortemente influenzati dalla dimensione economica, sociale e culturale.

Tali schemi affettivi, cognitivi, comportamentali, preriflessivi e incarnati influiscono sugli elementi strutturali della personalità di tutti gli individui:

  • l’identificazione e la regolazione degli affetti;
  • la percezione della realtà interna ed esterna;
  • il sistema dei valori e delle motivazioni;
  • l’identità.

In che modo tali determinanti modellano la struttura psichica?

Il contesto socio-culturale agisce direttamente sul singolo individuo attraverso mass media, social network, scuola, famiglia e gruppo di pari.

Mass-media e social network, hanno oggi una potenza e invasività mai raggiunta prima, e sono in grado di condizionare gli individui in diversi modi:

  1. inducono specifiche emozioni (paura, insicurezza, sfiducia) nelle masse e nei singoli individui; etero-regolano l’emotività; tele-guidano l’identificazione, l’interpretazione e l’espressione delle emozioni;
  2. costruiscono rappresentazioni di realtà che sottopongono in maniera martellante agli spettatori/utenti;
  3. generano sistemi di valori;
  4. smantellano la struttura identitaria degli individui.

Anche la scuola è stata trasformata e disabilitata: non più sorgente di istruzione, cultura e identità ma, in sinergia con gli altri mezzi di influenzamento e di propaganda, essa opera ormai una spinta destrutturante nei confronti degli individui (Frezza, 2017).

Si realizza una potente pressione verso la disintegrazione dell’identità, l’insicurezza cronica, l’asocialità e la parcellizzazione delle relazioni, l’individualismo, il materialismo, il nichilismo, l’amoralità, il relativismo, il senso di vuoto soggettivo e spirituale.

Ne risulta uno stato di malessere psicologico dell’individuo e della collettività. Tale stato di sofferenza è indotto agendo sistematicamente sui bisogni umani fondamentali di:

  • sicurezza (fiducia in sé e negli altri);
  • relazioni (legami, attaccamento, amore);
  • spiritualità.

Soltanto un Uomo così decostruito può abitare la società consumista, poiché esso è:

  • infelice (ma non troppo), così cerca soddisfazione nel consumo di oggetti;
  • debole e insicuro, così non si ribella ma compra (possibilmente online);
  • impaurito, così è propenso ad eseguire gli ordini che provengono dall’alto;
  • iperspecializzato, tecnicistico, umanamente ignorante, così non si pone domande e non crea troppi problemi;
  • sfiduciato, individualista e competitivo, così non crea aggregazioni potenzialmente pericolose;
  • povero (ma non troppo), così non ha il tempo di studiare e la forza per contestare;
  • disilluso, disincantato, relativista, amorale, così si realizza soltanto nel proprio meschino impiego (inconsapevole di essere sfruttato).

Raccontando la deriva verso la normopatia sociopatica, Mignosi (2020) esplicita e approfondisce ulteriori descrizioni di questo fenomeno involutivo.

L’Autore riflette sulle dinamiche psicosociologiche che abbiamo sin qui brevemente delineato (è notevole, a mio parere, la parte in cui tratta della psicoterapia e della disposizione emotiva del terapeuta).

La lotta di classe

Le determinanti di ordine economico definiscono la cultura e la forma della società in cui viviamo. E quindi il sistema consumistico globalizzato incide profondamente sulla struttura di personalità degli individui.

Tali determinanti non sono naturali e tantomeno neutrali, e vengono manipolate secondo la volontà di chi ha sufficienti risorse per farlo.

Per procedere ulteriormente nel nostro ragionamento abbiamo bisogno di spiegare un concetto che oggi è forse passato in secondo piano, ma è essenziale per comprendere cosa ci sta accadendo: il conflitto tra classe dominante e classe lavoratrice.

Far parte di una classe sociale significa appartenere, volenti o nolenti, ad una comunità di destino, e subire tutte le conseguenze di tale appartenenza […] avere maggiori o minori possibilità di fruire di una quantità di […] beni materiali e immateriali, sufficienti a rendere la vita più gradevole e magari più lunga; disporre […] del potere di decidere il proprio destino.
(Gallino, 2012, p. 4)


Lotta di classe, «per chi non è soddisfatto del proprio destino […] significa mobilitarsi per tentare di migliorare, insieme con gli altri che si trovano nella medesima condizione, il proprio destino con diversi mezzi; o quanto meno, per evitare che esso peggiori» (p. 8).

Non siamo più testimoni di moltitudini di operai che marciano nelle piazze per reclamare i propri diritti, tuttavia masse di individui, accomunate da legittimi interessi comuni, continuano a lottare per ottenere maggiori benefici economici, politici e culturali.

Chi vuol esser miliardario?

Adesso semplificherò forse un po’ troppo, ma invito ad approfondire l’argomento ad esempio attraverso la lettura dei seguenti testi, che ho trovato molto chiari e comprensibili, e che ho ampiamente adoperato per la stesura di questo articolo:

  • Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012;
  • Lidia Undiemi, La lotta di classe nel XXI secolo, 2021.

Oggi possiamo identificare due fronti contrapposti: la classe dominante e la classe dominata.

Ma che significa “dominante”?

Spiegarlo esattamente esula dall’intento di questo articolo, ma prometto di essere più preciso in una successiva occasione. Ci proverò con un piccolo escamotage che spero dia l’idea della sproporzione di risorse, e quindi di potere, tra ciascuno di noi e chi ha una disponibilità economica davvero enorme.

Una sera d’estate, durante una piacevole cena in casa di amici, ci siamo divertiti a commentare una notizia di gossip: un noto miliardario italiano aveva regalato alla sua giovane ex moglie una villa del valore di qualche milione di euro come “trattamento di fine rapporto”.

Dopo le solite inevitabili battute, ci siamo posti una domanda: rispetto al patrimonio del miliardario, qual è il “peso relativo” della villa che aveva regalato alla ex?

Allora abbiamo fatto una semplice proporzione. Supponendo che il patrimonio del miliardario ammontasse esattamente a un miliardo di euro (in realtà è molto di più) e che il valore della villa fosse un milione di euro, il miliardario ha fatto un regalo alla ex pari a un millesimo del proprio patrimonio: lo 0,1 per cento.

Adesso viene il bello… facciamo finta che il nostro patrimonio totale sia di centomila euro (a questo punto forse alcuni sorrideranno). Un millesimo di 100.000 fa 100. Quindi è come se, nella stessa situazione, noi avessimo elargito al nostro ex partner, 100 miseri euro di “buonuscita”!?

Non so se mi spiego.

Ma andiamo avanti: mettiamo che la casa più tutto quello che possediamo valga 300.000 euro; rispetto a chi possiede tre miliardi di euro (3.000.000.000 euro, comunque molto meno del magnate di cui sopra) ci sono quattro zeri di differenza.

Vogliamo sentirci miliardari? Togliamo quattro zeri al prezzo di qualsiasi bene per capire l’impegno economico necessario per acquistare le stesse cose che desideriamo oggi, se fossimo davvero così facoltosi.

I miliardari comprano una villa del valore di un milione di euro (1.000.000 ) con la stessa disinvoltura con la quale noi compriamo un paio di scarpe neanche troppo costose (100 euro).

Ci si può divertire a fare le proporzioni, ma dopo un po’ l’esercizio diventa avvilente: immaginiamo infatti di andare a lavorare, nel nostro studio privato, per un centesimo l’ora. Tanto pesa per un miliardario un’ora ben pagata del nostro tempo lavorativo: un decimillesimo di 100 euro corrisponde a un centesimo.

Abbiamo idea di quanti siano i miliardari nel mondo? E di quante centinaia, o migliaia di miliardi possiedono le singole famiglie più ricche del mondo?

Questa è la classe dominante.

Tutti noi siamo i dominati.

Dalla nostra abbiamo la numerosità del gruppo: qualche miliardo contro qualche migliaio (e qui “ballano” ben sei zeri di distanza!). Ma ahinoi! anche in questo caso non c’è da festeggiare, perché è molto più difficile che sette miliardi di persone si diano un’organizzazione comune, rispetto a qualche migliaio.

Tuttavia, a volte la storia ci riserva anche delle soddisfazioni.

Un’anomalia della storia?

Dopo gli eventi della prima metà del Novecento e in seguito all’esito della Seconda Guerra Mondiale, il baricentro del conflitto di classe si è spostato leggermente in favore dei lavoratori dipendenti, del popolo, a scapito della minoranza in possesso di ingenti mezzi economici e potere.

Decine di milioni di persone hanno trovato per la prima volta nella storia un’occupazione stabile e relativamente ben retribuita […] si sono ridotti gli orari di lavoro di circa 2-300 ore l’anno (che vuol dire quasi due mesi di lavoro in meno); si sono allungate di settimane le ferie retribuite. […] si sono estesi […] i diritti dei lavoratori ad essere trattati come persone e non come merci che si usano quando servono o si buttano via in caso contrario.
(Gallino, 2012, p. 10)


In Italia sono stati gli anni del boom economico: un aumento generalizzato del benessere di tutti i cittadini prodotto, tra l’altro, dall’aumento dei salari. 

Lo Stato si è fatto carico di servizi essenziali ampliando il sistema pubblico di protezione sociale.

È stato un periodo molto favorevole, durato trenta o quaranta anni, anche grazie a eccezionali contingenze internazionali.

Le classi dominanti sono state […] indotte a cedere una porzione dei loro privilegi, tutto sommato limitata […] ciò ha voluto dire una riduzione del potere di cui godevano, dovuta in parte alle lotte dei lavoratori, in parte al convincimento che fosse meglio andare in quella direzione affinché l’ombra ad Oriente non esercitasse troppa influenza nel contesto politico occidentale (p. 11).


Dagli anni ’70 e ’80 del Novecento, anche a causa dei mutamenti geopolitici (tra i principali lo sfaldamento del blocco sovietico), il capitale ha inteso recuperare la precedente egemonia, e oggi la lotta di classe prosegue sempre più drammaticamente a nostro sfavore.

Ciò è avvenuto anche grazie a due potentissimi strumenti:

  • la globalizzazione
  • la finanziarizzazione dell’economia (cioè la possibilità di fare soldi coi soldi).

La controffensiva capitalistica utilizza numerose strategie per attaccare i diritti dei lavoratori e le protezioni statali per le fasce più deboli. La più importante prevede la colonizzazione delle istituzioni, in modo da garantire politiche in favore delle classi dominanti.

Dal secondo dopoguerra abbiamo assistito alla proliferazione di enti nazionali e sovranazionali preposti alla disciplina dei mercati e delle relazioni sociali sottostanti, e quindi alla creazione di un complesso e corposo sistema di regole volto a predeterminare rigidamente le relazioni sociali secondo precisi obiettivi politici favorevoli al capitale.
(Undiemi, 2021, p. 312)


«Si è puntato anzitutto a contenere i salari reali, ovvero i redditi da lavoro dipendente; a reintrodurre condizioni di lavoro più rigide nelle fabbriche e negli uffici; a far salire nuovamente la quota dei profitti sul Pil che era stata erosa dagli aumenti salariali, dagli investimenti, dalle imposte»
[…]
«In sostanza non è affatto venuta meno la lotta di classe. Semmai, la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente»
[…]
«Questa lotta viene condotta dalle classi dominanti dei diversi paesi, le quali costituiscono ormai per vari aspetti un’unica classe globale. Rientrano in essa i proprietari di grandi patrimoni, i top manager, […] i politici di primo piano che spesso hanno rapporti stretti con la classe economicamente dominante, i grandi proprietari terrieri…» (Gallino, 2012, p. 11-12).

Oggi la classe capitalistica si è ampliata e ha acquisito una struttura transnazionale. E il potere che è in grado di gestire è incomparabilmente più importante di quello dei loro antenati di fine Ottocento.

Tra le strategie di lotta di classe dall’alto annoveriamo le politiche di austerità (la limitazione dei consumi privati e delle spese pubbliche), imposte al nostro Paese soprattutto a partire dal 2011 (Governo Monti).

Tali scelte politiche vanno contro gli interessi della maggioranza dei cittadini: l’austerità crea disoccupazione, per cui si riduce il costo del lavoro e in breve tempo si determina la riduzione del reddito di tutti.

Da almeno trent’anni la classe media si assottiglia sempre più mentre la massa di indigenti lievita, come lo scontento generale. Ma così aumenta il pericolo che tale malcontento produca un’azione di rivolta generalizzata.

Quindi, affinché questa condizione non degeneri, la minoranza al potere deve agire su almeno due fronti: espandere la propaganda e comprimere la democrazia.

E siamo arrivati all’oggi, alle questioni di cui abbiamo discusso e alle azioni infami che tanti di noi hanno subìto (ma grazie alle quali ci siamo finalmente mobilitati): la classe dominante ha bisogno di indurre una repressione generalizzata, in maniera opaca e dissimulata, così che possa essere tollerata dalla massa disinformata e inconsapevole.

Adoperando questa cornice interpretativa, sarà più semplice identificare l’intento repressivo di certe decisioni di governo. Ce ne occuperemo certamente nei prossimi articoli.

Adesso, per tornare alla questione con cui abbiamo dato inizio al nostro ragionamento, la mia proposta è: continuiamo a studiare le motivazioni esatte che stanno alla base delle decisioni politiche attuali. Perché soltanto se abbiamo alle spalle una conoscenza razionale dei fatti possiamo elaborare obiezioni inappuntabili e strategie di contrasto efficaci.

Nel paragrafo successivo proverò a declinare le più adatte a noi psicologi come categoria professionale.

Intanto, a questo punto, spero di aver chiarito che TUTTI NOI siamo #dallastessaparte della barricata.

Cosa possiamo fare?

L’intera struttura ordinaria della quotidianità, quella che si da per scontata, non è affatto scontata. È un dispositivo globaritarista.
Non sarà un buon genitore/educatore/formatore a rivoltare il piano della quotidianità per renderne visibile la sua intenzionale arbitrarietà, perché egli opera nel sistema che vorrebbe mettere in discussione. I processi di trasformazione che intende promuovere nelle nuove generazioni, con enorme difficoltà potranno svolgersi nel corso di una singola vita. È molto più probabile che debbano trascorrere numerose generazioni affinché cambi la visione del mondo; il territorio su cui ci muoviamo non è più quello psicologico-sociale, ma quello antropologico-culturale. È necessario cioè che si addensi un sentimento, e con esso una coscienza capace di aggregare gruppi con una forza propositrice intelligente e crescente.
(Mignosi, 2020, pp. 81-82)


Occultandosi dietro al paravento di una democrazia virtuale, la classe dominante ha la garanzia di proteggersi dal conflitto verticale e garantire a se stessa un futuro meno problematico.

Il progetto viene realizzato anche grazie al tradimento di una parte dei rappresentanti dei corpi intermedi (partiti politici, sindacati, associazioni, ordini professionali) e la de-politicizzazione della società (che ingenera un conflitto “orizzontale” tra gruppi appartenenti alla medesima classe dei dominati).

Abbiamo mostrato che l’attuale sistema economico capitalistico, finanziarizzato e globalizzato sopravvive soltanto se l’uomo che lo abita rimane debole.

Perché ciò si realizzi, vengono attivamente minate le fondamenta della struttura psicologica degli individui.

Se quello che avete letto finora vi sembra fondato e ragionevole, dobbiamo essere coerenti e trarne la logica conseguenza: anche la nostra identità – personale e professionale – è rimasta deformata dal dispositivo culturale che ci opprime.

Abbiamo interiorizzato il sistema di valori del nostro oppressore, e lo replichiamo inconsapevolmente.

Se non estirpiamo dal nostro codice interno il paradigma neocapitalista, rischiamo di combattere nel campo scelto dall’avversario, e con gli strumenti da esso predisposti.

Di conseguenza, il primo passo è decontaminare il nostro sistema di valori attraverso un processo di decondizionamento e autoformazione.

Per far ciò dobbiamo mobilitare tutte le risorse affettive che abbiamo a disposizione, dentro e attorno a noi. L’emotività che abbiamo temporaneamente accantonato per avviare l’analisi rigorosa degli eventi, la recuperiamo adesso per sostenere una solida volontà.

La disciplina interiore sarà necessaria per riconquistare il tempo di vita offline, contenere le relazioni virtuali e favorire gli incontri reali, in carne e ossa. Riguardo a questi due punti dobbiamo tutti fare un sincero e profondo esame di coscienza.

La rivoluzione interiore (Guzzi, 2019) può avvenire soltanto se gli individui sono collegati tra loro attraverso legami profondi. E noi psicologi abbiamo le competenze per contribuire a consolidare uno spirito di gruppo e di comunità autenticamente solidale.

Sarà necessario assumere la piena responsabilità del proprio operato: dobbiamo accantonare l’atteggiamento lamentoso che non serve a nulla, se non a dare a noi stessi l’illusione di non accettare le oppressioni, senza però ribellarci veramente (Scardovelli, 2000).

Probabilmente quello che sto per scrivere adesso non risulterà facile da accettare, ma ritengo che dobbiamo mettere da parte l’atteggiamento ostile nei confronti di chi ha inconsapevolmente agito da elemento di trasmissione del sistema oppressivo: è necessario disinnescare il conflitto orizzontale tra appartenenti alla stessa classe sociale per tentare di coinvolgere anche chi non ha ancora compreso le dinamiche repressive in cui siamo immersi, forse perché finora non è stato colpito duramente in prima persona.

Ma perché ciò possa avvenire, bisogna recuperare uno stato d’animo positivo, benevolo ed equilibrato. 

In fondo, se ci riflettiamo a mente serena, dobbiamo anche ammettere che ‘non è vero che tutto va peggio’, come recita il titolo di un libro da leggere per rilanciare l’impegno a proseguire il percorso secolare di progressivo, anche se non lineare, miglioramento delle nostre condizioni di vita (Dotti, Fo, 2008).

Dopo aver risolto le ‘passioni tristi’ di cui siamo intrisi (Benasayag e Schmit, 2004), potremo ricomporre insieme un sistema affettivo-motivazionale risanato.

Dobbiamo essere fisicamente e mentalmente attrezzati per la lotta: recuperare la fiducia in noi stessi, la salute, la determinazione; ricostruire relazioni sane; coltivare l’ottimismo e una visione del mondo che non escluda la dimensione trascendente dell’esistenza.

Nell’idea di partecipazione individuale a scelte collettive che hanno poi ricadute su tutti e su ciascuno è insita la speranza in un mutamento tangibile, una innovazione della società e del mondo che renda un po’ più liberi, più padroni del proprio destino, che avvii verso qualche forma di emancipazione.
(Gallino, 2012, p. 209)


La nostra associazione #dallastessaparte realizza gruppi di sostegno per ristabilire la fisiologica gratificazione dei bisogni fondamentali di sicurezza (fiducia in sé e negli altri), relazioni (legami, attaccamento, amore) e spiritualità.

Si aggiungono i gruppi di consapevolezza personale e politica, che definiscono il vero campo di battaglia: in primo luogo dentro ciascuno di noi (identità e cultura) e poi, di conseguenza, sociale.

Il sostegno da parte del gruppo e della comunità è necessario anche perché in un futuro non troppo distante, giungeranno momenti ancora più impegnativi. Già oggi non è più garantito ciò che per i nostri genitori era relativamente assodato: ad esempio la stabilità lavorativa, l’assistenza medica di base gratuita e una pensione dignitosa.

Costruire una rete di comunità, ricreare una rete di relazioni autentiche, cooperative e solidaristiche, ridurrà il rischio di entrare in grave sofferenza quando verranno ulteriormente ridotti i margini di protezione sociale e la disponibilità di beni materiali.

Un progetto a lungo termine

Dovremo essere capaci di agire anche su un piano temporale molto più esteso della nostra singola esistenza: il nostro impegno sarà intergenerazionale.

Dovranno trascorrere molti decenni, prima che il germe di una matrice relazionalmente fertile potrà attecchire, soprattutto in considerazione della scala globale sulla quale queste dinamiche antropopsichiche si dispiegano.
(Mignosi, 2020, p. 82)


La Scuola è uno dei centri più incisivi di condizionamento e coloro che vi lavorano hanno un compito particolarmente importante (a tal proposito consiglio la lettura del libro MalaScuola di Elisabetta Frezza).
In questa direzione, l’associazione #dallastessaparte ha strutturato al proprio interno uno specifico gruppo di lavoro.

Incentiviamo la ricerca e l’evoluzione psicologica e spirituale.

Continuiamo ad approfondire le dinamiche psicosociologiche conseguenti alla lotta di classe e informare i colleghi.

Bisogna agire sui fattori che tendono a disincentivare l’azione politica.

Rifiutiamo la narrazione della politica ladra, della “casta” e riattiviamo la partecipazione dei cittadini all’interno delle istituzioni che, seppur sfibrate, esistono ancora.

Difendiamo gli strumenti della democrazia: lavoriamo affinché si ristabilisca la conflittualità fisiologica tra raggruppamenti di individui con interessi legittimamente contrapposti.

La conflittualità non è superabile in un sistema democratico
(Undiemi, 2021, p. 345)


«Garantire la conflittualità significa infatti assicurare anche la sopravvivenza dei sistemi democratici: l’alternativa è il pensiero unico, che è l’antitesi del pluralismo. L’antagonismo pertanto […] consente di calibrare interessi contrapposti, e quindi di mantenere un equilibrio costituzionalmente sostenibile» (Undiemi, 2021, p. 307).

«La politica, in fondo, è un processo volto a distribuire tra i cittadini diritti sociali e risorse materiali e immateriali. I governi tecnici degli ultimi anni si sono adoperati in genere per far sì che diritti sociali e risorse siano per quanto possibile spostati sempre più dal basso della piramide sociale verso l’alto» (Gallino, 2012, p. 199).

Ripopoliamo, dunque, gli organi intermedi: sindacati, partiti, associazioni, ordini professionali devono tornare a rappresentare con forza le istanze dei cittadini ai livelli politici più alti, per consentire una più equa distribuzione della ricchezza e del benessere.

***

  • Benasayag M., Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, 2004.
  • Bourdieu P., Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, 1972 (tr. it. 2003).
  • Bourdieu P., Risposte: per un’antropologia riflessiva, 1992.
  • Dotti M., Fo J., Non è vero che tutto va peggio! Come e perché il mondo continua a migliorare anche se non sembra, 2008.
  • Frezza E., MalaScuola, 2017.
  • Gallino L., La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012.
  • Guzzi M., Alla ricerca del continente della gioia, 2019.
  • Mignosi G.G., Lo spietato repertorio della contemporaneità. Verso una normopatia sociopatica, 20.
  • Scardovelli M., Subpersonalità e crescita dell’Io, 2000.
  • Undiemi L., La lotta di classe nel XXI secolo, 2021.
AttualitàPolitiche professionali

Memorie dal lockdown. Questioni aperte per una pratica plurale.

Roberta Campo ripercorre i principali accadimenti degli ultimi anni e, con acume e competenza, ci aiuta a riflettere sulle gravi conseguenze psicosociali delle politiche di contenimento del virus.

Questo articolo rappresenta l’ulteriore sviluppo del documento presentato all’Ordine degli Psicologi della Regione Sicilia durante l’interlocuzione avvenuta lo scorso 21 giugno 2022.

In esso trovano spazio molti dei temi cari ai membri dell’Associazione #dallastessaparte, fra tutti evidenziamo il valore del gruppo come primo incubatore del pensiero critico sulla società.

È un commento molto profondo, cui vi invitiamo a dedicare il giusto tempo.

Buona lettura!


“Qualcosa è cambiato” in questi ultimi anni, e molti sono gli interrogativi che attraversano il mondo delle professioni, non ultimo quello della psicologia. O forse qualcosa era cambiato da tempo, e questi ultimi anni passati tra lockdown, chiusure e obblighi ci stanno solo consentendo di visualizzare con più chiarezza alcune questioni.

Non ho grandi conclusioni da mettere sul piatto, ma ho molte domande aperte sulle quali mi sono confrontata in questi anni e mi continuo a confrontare, insieme a colleghi disposti a farlo.

Ritengo che il nuovo coronavirus abbia semplicemente fatto emergere in figura tutta una serie di questioni, di assunti che ci hanno accompagnato anche durante i cosiddetti anni “prepandemici”.

L’ “emergenza pandemica” ci ha colti tutti più o meno alla sprovvista e molto si è agitato dentro di me e attorno a me: ciò che mi ha maggiormente sostenuto è stata la possibilità di pensare dentro i gruppi, anche se virtuali (spesso gli unici che in alcuni casi è stato concesso abitare per molto tempo); luoghi dove potersi confrontare, dove poter riflettere su come continuare a essere d’aiuto e di sostegno in “stato di emergenza”, su come rispondere alle angosce dei pazienti, dove poter essere di aiuto a noi stessi; luoghi, inoltre, dove poter fare ancora critica sociale. Eravamo tutti accomunati dal desiderio di metterci pensiero insieme. Il sostegno e nutrimento avuto da questi attraversamenti è stato di un valore inestimabile e probabilmente, rispetto allo sconvolgimento personale e sociale, non sarei riuscita a farci un pensiero senza un confronto vivo e attivo con i colleghi.

All’inizio del primo lockdown il mondo sembrava essersi fermato bruscamente: i canti intonati dai balconi si alternavano solo con la voce dei giornalisti che aggiornavano sui numeri delle vittime. Apparentemente null’altro sembrava accadere. Al coro intonato delle famiglie resilienti, infatti, si contrapponeva il silenzio dei bambini, l’isolamento degli anziani privati degli affetti, le morti in solitudine, i lutti negati…

Il lockdown, che in un primo momenti è stato accolto con sollievo da tanti, mostrava subito una parte francamente problematica, di cui però in pochi sembravano volersi fare carico.

Nei mesi successi, la spaccatura tra le persone si è andata allargando, e la polarizzazione dei punti di vista è diventata una costante della maggior parte dei confronti pubblici e privati: ciò che inizialmente sembrava essere un coro unico, non lo era più, e le persone divergevano tra loro non solo sulle strategie da adottare, ma anche sulle letture necessarie per affrontare la situazione.

Tutti ricorderemo le domande che hanno caratterizzato la primavera del 2020: i runner sono persone con una spiccata tendenza all’antisocialità o sono persone normali che testimoniano un diritto altro alla salute? I droni sono fondamentali per la sicurezza pubblica e privata, o al contrario sono una forma di controllo sociale? Immuni è usata solo da persone capaci di adottare un comportamento altruistico e dotate di un alto codice morale, o il comportamento morale caratterizza anche coloro che scelgono di non scaricare l’app?

Ciò che mi colpiva, in quei primi mesi, era la presenza di un sentimento apparentemente inaspettato all’interno di quella comunità che solo pochi giorni prima aveva dipinto arcobaleni sulle lenzuola: il risentimento.

Il risentimento sembrava avere preso in ostaggio il legame sociale e gli affetti: il corpo unico, solidale, capace di intonare inni rassicuranti, lasciava il posto a un corpo diviso, disarticolato, all’interno del quale ci si andava scoprendo profondamente diversi.

Scoprirci diversi ha spaventato molti, probabilmente perché la diversità è stata vista come l’ostacolo che non permetteva di aderire a comportamenti virtuosi, altruistici e compatti: sì, bisognava essere compatti! Ognuno di noi potenzialmente, con il proprio sentire e agire autonomo (non necessariamente irresponsabile) poteva mettere a repentaglio gli sforzi comuni profusi per uscire dalla “emergenza”.

Probabilmente per questo i comportamenti e i pensieri difformi provocavano risentimento: si ritenevano alcuni più responsabili di altri nel mantenimento di una condizione, in questo caso lo stato di emergenza sanitaria; nessuno si sentiva più al sicuro davanti alle strategie adottate e rappresentate dall’Altro.

Abbiamo, quindi, iniziato a scoprirci diversi: ognuno di noi, con il proprio agire, stava raccontando le proprie soluzioni per navigare o restare sospesi, dichiarava i propri valori e, perché no, le proprie ideologie.

Per la prima volta ci sembrava di parlare linguaggi diversi. Nei mesi precedenti l’inizio dell’ ”emergenza pandemica” non avevamo mai sperimentato questo tipo di inquietudine: quando si affrontavano argomenti quali la salute, i valori, i principi di riferimento di una società, il concetto di libertà si aveva, bene o male, la sensazione di avere tutti la stessa cosa in mente; cambia poco ma, insomma! la definizione di salute è quella, così come quella di bene comune o di libertà; nulla ci ha mai fatto sospettare che potevamo anche avere in mente delle cose molto diverse tra loro, nonostante l’apparente omogeneità. Credo che in quei primi mesi abbiamo perso una delle occasioni per iniziare a disambiguare le parole, e comprendere come dentro parole solo foneticamente uguali si possano nascondere significati molto diversi.

Questa inquietudine attraversava molte delle relazioni amicali, ma anche le relazioni con i colleghi. Cambiava qualche accenno più teorico a sostegno di una tesi o dell’altra, ma la sostanza rimaneva quella: non ci capivamo e, forse, ci si sentiva anche un po’ traditi nella misura in cui ci si andava scoprendo (nella relazione con sé e con l’altro) diversi da come ognuno aveva pensato di essere.

E intanto non si parlava più, si litigava. Le questioni principalmente in ballo riguardavano il che cosa si intendesse per salute, libertà, bene comune, collettività, individualismo, quasi alla ricerca di definizioni uniche, astoriche e assolute: non potendole vedere come il frutto di una negoziazione culturale durata secoli, si è negato il profondo legame tra queste “definizioni” e il sistema di valori personali e di gruppo, e con aspetti identitari più profondi.

Quello che però mi turbava era la sensazione che alcuni discorsi fossero più legittimati di altri perché dichiarati da una posizione di autorità. In ballo, però, non vi era solo il rapporto che ognuno di noi intrattiene con l’autorità, ma la stessa relazione tra autorità e verità

La situazione ha preso una strada decisamente grottesca quando sono stati immessi sul mercato i primi “vaccini”; qualcosa è ulteriormente cambiato, i toni sono divenuti più aspri, sempre più violenti; qualcosa è cambiato, purtroppo in peggio, e probabilmente anche i diversi gruppi professionali sono stati attraversati dalle stesse scissioni che hanno attraversato lo spazio sociale più ampio.

Perché qualcuno, inspiegabilmente, si sentiva più vicino al Vero rispetto ad altri?

Forse perché l’essere personalmente risolto, razionale si è imposto, in questi ultimi anni, come una categoria del Vero. Anche nel caso dei cosiddetti vaccini si è probabilmente riproposta la questione dell’essere risolti.

L’implicito è che chi è risolto è riuscito a neutralizzare il dato soggettivo, e può quindi assolvere sufficientemente bene il principio di autorità: chi è risolto è razionale e scientifico, non è vittima di pregiudizi e superstizioni, e quindi può essere espressione del Vero. 

Nell’immaginario collettivo, però, è la scienza a essere vista come quella che meglio riesce a garantire la possibilità di neutralizzare il dato soggettivo distorcente, proiettivo, scissionale… L’essere risolto, quindi, sembra divenire sinonimo di scienza: il pensiero scientifico è l’unico che garantisce lucidità, scelte sagge e legate al bene collettivo.

Come se, l’essere risolti, non avere questioni in sospeso e non avere turbamenti garantisca a priori il mantenimento di quell’atteggiamento lucido e coraggioso necessario nell’attuale società.

Così la delegittimazione di alcuni discorsi avviene in nome della scienza che è l’unica di fatto a permettere, con il suo sviluppo, sempre maggiore gradi di civiltà e di civilizzazione (pensiamo a tutta la retorica sul bene comune). Tutti coloro che parlano a nome proprio sono egoisti, creduloni, superstiziosi, comunque problematici. Ma il rapporto che ognuno ha con la verità non può essere mediato dalla scienza.

I pensieri divergenti, le voci critiche sulla gestione della pandemia e sulla deroga al principio di precauzione scientifico in tema di sperimentazione, le riflessioni sul ruolo della scienza all’interno della nostra società sono state messe fuori dallo spazio democratico (“chi non è d’accordo si accomodi fuori”) perché in contrasto con una qualsiasi forma di deontologia scientifica.

La negazione del dato soggettivo e la questione deontologica si erano già incontrate in questi anni, ma con la vicenda vaccinale esse sembrano stringere un vero e proprio sodalizio.

La pandemia o qualsiasi altra situazione emergenziale, scientificamente e tecnicamente definita, può essere gestita solo da voci esperte, autorevoli, scientifiche e quindi vere. Gli esperti, così come gli scienziati, avendo neutralizzato quella distorsione soggettiva che falsifica il pensiero, sanno cosa fare, e lo fanno bene e per il bene. In altre parole, la scienza (esatta) risolve il problema della verità.

Ma che spazio ha ancora la visione politica e sociale all’interno di una società tecnocratica? che spazio di libertà hanno ancora i cittadini nel decidere quali modalità li aiutano a vivere e pensare una determinata situazione, anche sostenendo l’arbitrio della propria posizione. Davvero questo deve essere monopolio dello Stato? 

Mi è stato più volte ripetuto che “non abbiamo le competenze per capire”. Ma è davvero così? E anche se fosse, cosa ci impedisce di iniziare a costruire tali competenze per capirne di più? quando abbiamo smesso di occuparci del nostro spazio politico e sociale delegando agli esperti qualsiasi decisione su di noi?

Il prezzo di questa gestione è stato per certi versi inevitabile: le soluzioni tecnico-scientifiche non hanno per nulla aiutato le persone a non soffrire, a non avere paura, a non impazzirci, a non nutrire risentimento per il proprio caro, anzi hanno aumentato il disagio e amplificato gli spazi del malessere.

Davvero avremmo dovuto solo adattarci alla nuova normalità? Ma poi, a cosa dovevamo adattarci: al distanziamento sociale? a una nuova visione dei rapporti sociali? a una nuova visione del mondo?

Si iniziava a parlare di una nuova normalità, come se adattarsi fosse questione di tempo, ma alla fine ci saremmo abituati tutti a questa nuova modalità di stare al mondo. E forse l’accettazione non troppo problematica del green pass ci dice quanto questo modello sia entrato dentro di noi. La gestione tecnico-scientifica ha mortificato i movimenti soggettivanti di gruppi e di persone, aumentando le richieste di aiuto nei confronti dei professionisti. 

Agli psicologi è stato chiesto di sostenere la campagna vaccinale, cercando di lavorare affinché i pazienti potessero maturare da soli la scelta di vaccinarsi liberamente. Qualcuno davanti a questa proposta ha sussultato, qualcuno no.

Con la pandemia la realtà è entrata nel setting; non solo perché professionista e cliente sono stati accomunati dalle stesse angosce sociali, ma anche e soprattutto perché, in maniera eccedente, la politica è entrata nel setting, definendo gli obiettivi di lavoro di una relazione, ma anche la legittimità di alcune relazioni. Come mai non ci siamo chiesti cosa significasse questa intrusione dello Stato nei setting terapeutici? di cosa parla? Forse, se ci fossimo posti prima queste domande, alcune terapie non si sarebbero interrotte (sono tante le esperienze di pazienti che hanno interrotto il proprio percorso sentendo che il terapeuta voleva utilizzare il proprio potere per convincerle alla vaccinazione).

Da quando devo convincere il paziente a fare qualcosa perché io so cosa è giusto per lui? La risposta di tanti sarebbe sicuramente “lo dobbiamo fare per il bene della comunità”, ma anche in questo caso, credo che sarebbe utile disarticolare e disambiguare gli impliciti sottostanti a certe affermazioni. Cosa è il bene della comunità? qual è il bene dell’individuo? cosa significa bene? e salute? il bene collettivo è realmente un bene plurimo e plurale? in che modo individuo e pluralità si incontrano, e fino a che punto il bene individuale deve dissolversi nel bene collettivo? l’epistemologia del mentale è sovrapponibile tout court alle epistemologie scientifiche?

Ritengo sempre molto rischioso per i professionisti del mentale abbandonare l’impegno alla costruzione di mappe cognitive flessibili, capaci di ampliare lo sguardo; al contrario, i perimetri ristretti dei saperi monolitici, lo sappiamo bene, se da un lato sono rassicuranti, dall’altro ergono muri invalicabili tra le persone.

Davvero possiamo chiedere soltanto alla scienza, alla norma, alla standardizzazione la soluzione a problemi che hanno a che fare con la convivenza, la pluralità e l’umano? come tornare a rendere tali questioni centrali per la convivenza?

Sono domande che chiamano in causa una deontologia plurale per una psicologia del soggetto plurale.

Il progetto #dallastessaparte parte proprio da questa prospettiva che diventa bussola per l’incontro con l’Altro.

Così si legge nella nostra Carta Costituente:

Se restiamo immobili, se le regole e le norme diventano il fine per cui operiamo, e non uno degli strumenti che ci permettono di realizzare il nostro lavoro, rischiamo di diventare automi, meri esecutori di direttive senza più senso. Siamo professionisti della salute e operiamo in autonomia: accogliamo le richieste senza alcuna discriminazione, nel rispetto dei principi costituzionali e deontologici. Come professionisti della salute mentale, abbiamo gli strumenti per guardare alla complessità delle relazioni d’aiuto. Ma è soprattutto un vincolo morale e deontologico che ci spinge a mantenere sempre la possibilità sospendere l’azione per ragionare. Porsi domande è parte integrante del nostro lavoro: mai fermarsi all’idea che ciò che appare già normato, corrisponda invariabilmente al giusto.


È di questo che, come psicologi, dovremmo tornare ad occuparci: come ridare parole all’impensabile, accettare l’imprevedibile e imparare ad attraversarlo nel pieno rispetto delle singolarità plurime che attraversano lo spazio sociale.