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Attualità

Cronache psicologiche: di sicurezza, vittime e violenza

Nel suo primo articolo per “Lo Scrittoio”, Gabriele Mignosi porta avanti, e ancora più a fondo, l’analisi sviluppata nel libro “Lo spietato repertorio della contemporaneità. Verso una normopatia sociopatica”.
Qui esaudisce la richiesta dei soci di #DSP e prosegue la disamina delle “trappole del complesso neoliberista”.
È certamente un contributo di grande valore, così come l’impegno che dedicheremo al suo studio.
La ricompensa sarà la ricostruzione della trama complessa e tridimensionale, degli eventi sociali, politici, economici e culturali di cui siamo testimoni.
Da un punto di osservazione rigorosamente psicologico, Gabriele costruisce argomentazioni solide, pacate, aperte e generose. E discutibili, vivaddio!
Le pubblichiamo soprattutto con l’obiettivo di ravvivare un dialogo all’interno della nostra categoria – che coinvolga tutti e non escluda nessuno – sulle determinanti e sulle implicazioni psicologiche e sociali di taluni provvedimenti di politica generale, sanitaria e professionale.
Perché, a pensarci bene, nel considerare l’importanza di un confronto schietto, autentico e pacifico, non possiamo che essere tutti #dallastessaparte.


Le trappole del complesso neoliberista sono oggetto di disamine critiche, più o meno radicali, ormai da diversi anni. Spesso, queste analisi preconizzano la fine del capitalismo; ma tirare i piedi del condannato, sembra che gli allunghi la vita.

Nel 2020 ho provato anch’io a fornire un contributo sulla cultura capitalistica del nostro tempo, attingendo da numerose fonti che ne analizzano nel dettaglio le implicazioni più deteriori e decadenti.

Ciononostante, i fenomeni globali occorsi nell’ultimo triennio[1], impongono un supplemento d’analisi, per comprendere ciò che fino a un momento prima appariva impensabile: una mobilitazione mondiale finalizzata al reclutamento politico, sanitario e militare nella guerra per la sopravvivenza.

1. Nonostante gli sconvolgenti provvedimenti in materia securitaria di questi anni possano essere interpretati come il canto del cigno del sistema neoliberista, di canto del cigno non c’è traccia.

Il capitalismo contemporaneo è vivo; solo, il suo volto ha perso la patina del sempiterno giovane e piacione Dorian Gray, per mostrare quella spietata e violenta che celava.

La questione della legittimità e del senso dei suddetti provvedimenti deve poter essere osservata senza alcuno scrupolo, affinché gli stessi possano essere reintrodotti nell’ambito del paradigma in cui si iscrivono.

Nel suddetto lavoro (2020), ho tracciato un percorso di riflessione che sottolinea alcune peculiarità del cittadino occidentale e occidentalizzato, sempre più fiaccato, nella volontà e consapevolezza, dal consumismo; un cittadino aguzzino di se stesso, intento a un monitoraggio e abuso continuo di sé, al fine di mantenere nella “norma” i propri parametri biometrici sempre più particolareggiati; un cittadino che per la propria sopravvivenza e il proprio primato, è disposto a negare l’altro e a usarlo con cinismo, spogliandolo del suo valore giuridico-morale, in un regime di “nuda vita”; un cittadino immiserito dal proprio individualismo e incapace di ribellarsi (Agamben, 1995, 2006; Han, 2012, 2014); un cittadino, in buona sostanza, angosciato dalla morte e orfano di qualsiasi dispositivo culturale e spirituale che lo sostenga di fronte ad essa.

Ho definito questo campione di cittadinanza “tossiconarcisista”, per segnalarne la dipendenza strutturale da protesi materiali e immateriali di ogni tipo (cfr. Preciado, 2008) e l’irriducibile disposizione autoindulgente e autoreferenziale.

Ebbene, ritengo ciascuno degli aspetti appena elencati prodromico dell’atteggiamento e comportamento che la popolazione occidentale (e occidentalizzata) ha generalmente mantenuto negli ultimi tre anni, con particolare riferimento alla disponibilità individuale e collettiva alla deroga alle libertà nel nome della sopravvivenza, in modo politicamente passivo, ma compulsivo e cinico sul piano del controllo di sé e dell’altro.

Ciò detto, nonostante quel cittadino normopatico (Mignosi, ibidem) – definito prima della pandemia – mostrasse tutti i segni premonitori del soggetto perfettamente adattato alla stagione del Covid-19, sono rimasto sorpreso dalla spregiudicatezza con la quale si è manifestato: gli inseguimenti in elicottero del runner isolato, le procedure di decontaminazione delle suole delle scarpe, il distanziamento millimetrico di banchi e alunni nelle aule (come fossero birilli piantati sul pavimento), il bisogno di tornate vaccinatorie quadrimestrali per il proprio bene o per quello di altri già vaccinati, la panacea del green pass, il ricorso a delazioni, linciaggi, sospensioni, licenziamenti, radiazioni di professionisti e lavoratori “dissidenti”, e tante altre circostanze, costituiscono realtà surreali composte da particelle che prese in sé potrebbero pure apparire sensate.

È questa la cifra di una tecnocrazia/burocrazia che prova a sconfiggere la morte: una violenza ridicola. Se la sommatoria delle tecniche genera un mostro, il mostro non appare in figura, ma rimane sullo sfondo. Lo dicono i numeri.

Se ci concentriamo, per esempio, sul green pass, notiamo che esso s’impone inesorabile e sottintende un’equivalenza tra il suo “darsi” e il “darsi” del virus SARS-CoV-2. Tanto è inestricabile il connubio tra fattore antropologico e ambientale nell’esplosione del secondo, tanto è inestricabile quello tra dimensione artificiale e naturale del primo. Questo spiega in parte l’eccellente presa che ha avuto sulla popolazione, ben lungi dall’opporvisi o tollerarlo con riluttanza, che lo ha introdotto nel suo bagaglio di usi e dispositivi scontati della quotidianità.

La mole di fattori sanitari, biologici, psicologici, politici, culturali che aprirebbe il campo sterminato della complessità dei fenomeni intorno a questo virus, è qui ampiamente amputata. Questa complessità altro non è che l’espressione di una molteplicità di variabili determinanti che, su tutti i piani, giungono a definire quella che è la manifestazione virale, caso per caso. Un fenomeno globale, affrontato ammassando tutte queste peculiarità in un unico calderone di significato – distillato in un dispositivo booleano – nega qualsiasi possibilità di analisi idiografica.

Una comunità che ha perso la capacità sana di discriminare le fattispecie, introducendo artificialmente un criterio a discapito delle altre migliaia, ha abbracciato il fanatismo.

2. A proposito di fanatismo e propaganda corrispondente, vorrei qui richiamare la rappresentazione del conflitto russo-ucraino, sottolineandone alcune affinità di carattere psicologico con le politiche in merito alla pandemia[2].

Innanzitutto, stiamo parlando di sciagure che promettono la morte indiscriminata. Al di là del rischio concreto, il modo in cui sono state proposte – tramite bollettini, aggiornamenti, analisi di ogni tipo e livello, a mezzo stampa, tv, rete – ha sostenuto un’angoscia di morte collettiva: di quella che coglie in modo incontrollabile.

E sottolineo la questione dell’incontrollabilità.

Una narrazione secondo la quale si rischia di essere contagiati da chi si incrocia per strada – parificando il droplet a un proiettile calibro .357 – è simile alla minaccia nucleare.

Nel giro di due anni, i comuni cittadini delle comode e privilegiate regioni più sicure del pianeta, si sono visti espropriati del loro diritto alla sicurezza, non potendosi più ritenere nel ventre della vacca.

Una simile minaccia non è paragonabile a quella terroristica o cataclismatica. Una bomba in un supermercato o uno tsunami sono evenienze che non costituiscono un allarme totale e costante. Questa è una eccezionale novità, soprattutto se ad una ne segue immediatamente un’altra.

All’angoscia di morte globale e incontrollabile, va associato un altro fenomeno di rilievo psicologico: la disponibilità all’isteria paranoide.

Così come le succitate manifestazioni a protezione dal Covid-19 hanno talora raggiunto vette fobico-deliranti, in diverse occasioni non ci si è fatto scrupolo di escludere da eventi disparati e talora estremamente marginali, ospiti, autori, artisti, sportivi (in vita e non) russi; o, cosa ancora più ridicola, imponendo delle “compensazioni” ucraine.

È necessario non dimenticare (non rimuovere) un presupposto: le misure anticovid o antirusse, vengono pensate e introdotte dentro il circuito neoliberista; non sono esorbitanti e scontate conseguenze del trauma.

Il “darsi” del virus e dell’invasione russa, la loro “datità”, alla quale guardare con neutra oggettività, è la più consueta delle rappresentazioni che i sistemi di potere propagandano per mistificare la parzialità politica delle proprie determinazioni.

Proprio nell’ambito di un sistema neotecnocratico – ossessionato dalla necessità di proteggersi dalle continue minacce attraverso protesi tecnologiche (idem) – la proliferazione di strumenti dal sembiante scientifico costituisce la via maestra nel governo delle cose.

Eppure, ci siamo cascati.

A questo proposito richiamo alla mente formule e argomentazioni del 2020-2021 ripetute tanto nelle nostre case, tanto nel circuito mediatico, in merito alle soluzioni contro il Covid-19: “intanto evito di essere intubato”, “intanto evito di finire nei camion dell’esercito”, “intanto evito di morire da solo”, o anche “poveri ragazzi, quanto male ha fatto loro la pandemia”.

Detto in altri termini: “la situazione è talmente grave che non possiamo spaccare il capello in quattro: poi si vedrà”.

Questa argomentazione non è banale, perché disinnesca qualsiasi iniziativa critica, riflessiva.

La stragrande maggioranza degli individui accetta così di sospendere qualsiasi eccezione etica, di opportunità, di solidarietà, di razionalità, perché in sostanza si tratta di salvare la pelle di fronte a un problema “vero”, oggettivo, assoluto, rispetto al quale le contromisure politiche ricadono nell’ambito dell’altrettanto vero, oggettivo, assoluto; come mettere le mani avanti quando si inciampa.

Va aggiunto che abbiamo garbatamente accettato le numerose falle dell’immunizzazione vaccinale – prima propagandata come tale, poi trasformatasi in protezione dal contagio, poi dalla malattia grave, infine dalla morte – che hanno trasformato una panacea in una necessità quadrimestrale[3], anche per altri motivi.

Intanto, il cittadino acquiescente si è sottoposto con sussiego alla vaccinazione periodica (e lo rifarebbe), perché ha ben rinunciato a ogni opzione autonoma, in funzione di un’adesione dipendente dai dispositivi culturali, medico-sanitari e di qualsiasi tipo.

Attenzione, non è la vaccinazione in sé, ma la necessità di ricorrere sistematicamente ad essa o ad altri sistemi esogeni e prostetici per continuare a vivere la vita di prima, che impone una riflessione. Non farlo, vuol dire cedere all’assuefazione; ed ecco il ritorno dell’individuo tossiconarcisista, fautore della macchina governativa che profonde strumenti di protezione, rassicurazione, sedazione (idem); e per simili garanzie, molti di questi sostenitori, sono stati disposti a escludere dalla loro vita parenti, familiari, amici.

Ecco che il neoliberismo si manifesta in una fase radicale (Dardot e Laval, 2016). Il volto aperto e inclusivo del liberalismo attento alle minoranze e ai più deboli è stato ‘contagiato’ dal grugno del cinico guardiano disposto a usare le misure forti, senza indugi, con chiunque si opponga.

È questione di vita o di morte, gente!

È sempre questione di vita o di morte se al popolo va somministrata la cura da cavallo (…o di lacrime e sangue).

I modi da stato di polizia, del resto, possono convivere con le smancerie del mercato (cfr. Dardot e Laval, 2019), fintantoché un’opzione differente non sarà né desiderabile né immaginabile (Mignosi, ibidem); ciò si realizza tutte le volte che i vantaggi di un Impero (quello del Mercato) continuano a essere disponibili, anche se attorno, il mondo cade a pezzi. E a ben vedere, nel biennio pandemico, il volume degli acquisti nel circuito digitale globale è aumentato (Dal Co, 2021).

L’Impero gode ottima salute.

3. L’isterismo paranoide, l’angoscia di morte, il tossiconarcisismo, lo stato di polizia, l’economia di guerra, trovano un ottimo baricentro in un dispositivo estremamente efficace: il paradigma vittimario (De Luna, 2011; Accati, 2013; Giglioli, 2014).

Secondo Accati, esso si presenta quando la pietà per le vittime e per la debolezza dell’uomo sostituisce la giustizia (in Rebora, 2018); per Giglioli si sviluppa attraverso l’intreccio di atteggiamenti e congegni che costruiscono un edificio che appare inespugnabile: la cultura della memoria, dove è più importante ripetere, ma non comprendere; la soggettività limitata dal sentimento asfittico della pena, come se la vittima non avesse altro da dire che la sua sofferenza; l’immunizzazione da qualsiasi caratteristica che possa contaminare il candore di chi soffre; la trasmissione transgenerazionale del distintivo vittimario a legittimazione di leadership altrimenti opinabili; l’investimento d’autorità la cui parola è insindacabile; la concorrenza tra vittime per stabilirne il primato; l’esonero da revisioni etiche, produttive; l’impunità (ibidem).

Chiamare a testimonianza i morti già morti e quelli futuri, nella più nobile delle intenzioni, costringe ogni obiezione in un cono di praticabilità estremamente ristretto e sdrucciolevole; in tutti gli altri casi la disarma proditoriamente. Come si può parlare di ciò che non convince delle politiche sanitarie prima e, perché no, delle politiche economico-militari, se ci si fa scudo coi cadaveri e con chi soffre? Come si fa a dibattere di qualsiasi soluzione politica se è autoassolta dalla sua finalità umanitaria? Quando si tratta di salvare le vite dei bambini o quelle degli anziani, a menar dubbi si fa sempre la parte dello sciacallo.

A ben vedere le emergenze di questo triennio costituiscono un’occasione ghiotta per perpetuare un paradigma già presente da molti anni (Mignosi, ibidem). Volti e corpi di vittime sono pervasivi nella comunicazione mediatica, subita (mass media) o agita (social media).

Del resto, la cura che mettiamo nel rintracciare le offese alla nostra integrità/identità/sensibilità soggettiva, è espressione di questa escalation che guarda a ciascuno di noi quale vittima. E per ogni vittima, esiste un carnefice. Così come la prima, anche il secondo è potenzialmente ciascuno di noi.

Il Mercato è pieno di colpevoli: guilt marketing o guilt appeal vorrebbero educare a comportamenti, d’acquisto o meno, socialmente responsabili, proiettando però un orientamento vittimario/colpevolizzante.

La coppia carnefice-vittima non è più un’evenienza di cronaca o un’emergenza sociale, bensì una chiave di senso ordinaria, oggi adottabile a ogni piè sospinto.

Perché?

Senza inoltrarmi in una approfondita ricostruzione storica, è tuttavia opportuno rintracciare le scaturigini e il senso di questa transizione, soprattutto dal punto di vista psicologico.

La tradizione paternalistico/autoritaria presente in Italia fino agli anni ’70-’80 ha subito una sterzata nella direzione di un maternage sempre più istituzionalizzato, fin nel profondo delle nostre coscienze e del nostro modo di sentire. Le storie dei bambini di una volta, che guardavano gli adulti intenti alle loro attività, di bambini “sufficientemente trascurati”, lasciati liberi di osservare e costruire una propria rappresentazione del mondo e di sé nel mondo, oggi sono soppiantate da quelle di adulti (genitori, formatori, educatori, psicologi, religiosi, politici, ecc.) che guardano i bambini – veri e propri protagonisti della scena – con l’affanno di capirci qualcosa e sempre preoccupati di non arrecare loro alcun danno.

Ma in questo modo, cosa “vedono” queste creature senza arte ma con parte, che entrano in scena immediatamente da protagonisti? Vedono dei giganti onnipotenti completamente catturati da essi, ammaliati, preoccupati. Quale orizzonte si propone ai bambini che arrivano in questa scena e in questo modo? Un riflesso narcisisticamente incontrastato che suggerisce loro la presunzione di valore assoluto, in una sorta di stadio dello specchio lacaniano senza contraddittorio.

Nella cultura anglosassone, il fenomeno si sviluppa, ed è oggetto di studio, già a partire dagli anni ’60 del secolo scorso. Con l’affrancamento dalla morale tradizionale, in favore della cultura di sé e del Sé, quale ideale autoreferenziale da coltivare e affermare contro i vincoli repressivi della cultura precedente, si apre la stagione narcisistica.

La rinuncia a una prospettiva comunitaria e l’adozione di una individualistica, il tramonto dell’orizzonte sociale che lascia spazio a quello psicologico (si pensi all’homo psychologicus di Lasch quale definizione del profilo narcisistico dell’individuo contemporaneo), il primato del“sentire” sul “credere”, dell’istanza impulsiva su quella istituzionale, dell’autodeterminazione sull’eterodeterminazione, dell’emotivismo sul razionalismo (Turner, 1976; Lasch, 1979; MacIntyre, 1981; Ehrenberg, 2010), costituiscono le dimensioni di questa rivoluzione paradigmatica che ha sospinto la visione morale fuori da categorie metapersonali, per ricondurla a quel che sono/sento, quale monade autarchica.

Lo sguardo improvvisamente rivolto sul figlio, se da una parte ne amplifica l’investimento narcisistico, dall’altra lo rende più fragile, tragicamente esposto al fallimento e non più alla semplice colpa, come accadeva all’uomo pre-psicologico (cfr. Ehrenberg, ibidem); se la colpa è riparabile in diversi modi, il fallimento, nato sotto la fulgida stella dell’illusione immaginaria, è catastrofico.

La dimensione intrapsichica di questo puer divinus in terra rimane sottile, debole; la maggior parte del suo repertorio si sviluppa all’esterno, a discapito delle sue capacità di autotutela e autocontenimento. All’introversione non può che preferire l’estroversione espulsiva e l’eterocontenimento del disagio.

In questo modo la sua emozione non si traduce mai in sentimento, ma in un’istanza di irriflessiva autoaffermazione. La cultura neoliberista si realizza già nelle primissime forme di (anti)accudimento e (anti)socializzazione. Il “posto” dei nostri ragazzi è oggi il fuori, non il dentro, è la protesta-rigurgito.

E gli apparati culturali post-istituzionali provvedono immediatamente, attraverso la configurazione di criteri pubblici di rassicurazione. Ma giustificare il disagio comunicato nel rigurgito narcisistico, significa sostenere il presupposto vittimario.


4. Le culture attente a non arrecare offesa per via discriminatoria (woke), che ricorrono a vecchie e nuove etichette e locuzioni[4], ampliando e articolando la schiera dei reprobi, rischiano di assolvere automaticamente l’accusatore (pronto a estroflettere la sua emergenza emotiva) e di legittimarne il giudizio, sebbene superficiale e inappropriato. In altri termini, possono incoraggiare una forma storicamente ben rodata per diffamare, screditare, ostracizzare.

È del tutto evidente che ciò a cui il razzismo, l’omolesbotransfobia, l’abilismo, la misoginia, ecc. fanno riferimento, esista, ma la proliferazione ossessiva di ciascuna di tali categorie[5] sembra corrispondere alla necessità di disciplinare le espressioni, appunto categorizzandole, non di opporsi a indebite discriminazioni[6].

Un’ingiusta discriminazione è del tutto evidente a chi ha intelligenza, umanità ed empatia sufficienti; trovare un nome specifico per ogni possibile caso, serve ad alfabetizzare chi non ha questa sensibilità, con l’effetto di non riuscirci, e di impedire a chi non ne ha bisogno di esprimersi. È come se correggessimo “Ulisse” di Joyce con la matita rossa e blu della maestra elementare.

Il risultato è doppiamente paradossale: da una parte la richiesta di sanzioni e interventi rieducativi rispetto al reo, in un clima di crescente pressione securitaria proveniente dall’area progressista, storicamente estranea a simili rivendicazioni; dall’altra, l’adozione esplicita di marker (Giglioli, ibidem) infamanti in reazione a offese presunte.

A chi obietta che le misure a protezione di categorie vulnerabili non possano essere ritenute di matrice securitaria, ricorderei che qualsiasi provvedimento delGoverno (o di un qualsiasi sistema di potere costituito) a favore di un soggetto categorizzato in senso vittimario, è sempre pericolosamente prossimo al securitarismo[7] (cfr. Waerer, 1995). Detto in altri termini, appellarsi al potere per liberarci da minacce presunte o reali, rischia di alimentare la forza del Leviatano di hobbesiana memoria[8].

Dovremmo sempre tenere a mente che è preferibile proteggersi dal più forte e non grazie ad esso. Il rifugio nella Legge può costituire, in presenza di una paura collettiva più o meno fomentata, un pericolo sul quale vigilare prioritariamente, giacché il legalitarismo a difesa dell’individuo è un’istanza estranea al principio sociale, e che predispone a insediamenti paranoici.

Eppure, la macchina neoliberista continua a imprimere la sua forza modellatrice sotto il profilo economico, giuridico, politico, sociale e, in particolare, psicologico. Parafrasando il motto trumpiano di America first, proporrei l’altrettanto protezionistico Emotion first. L’individualismo ha sfondato a sinistra, per così dire, assimilando la meritoria cura per le minoranze, per il disagio sociale e psicologico, l’attenzione alle varie forme di sofferenza dell’uomo, sistematicamente alimentate dai sistemi culturali, con i loro pregiudizi, costumi, pratiche, consuetudini e limitazioni. Ma l’assimilazione neoliberista ha un costo enorme: la trasformazione dei problemi sociali in questioni, appunto, individuali. Non si tratta più di intraprendere uno scontro/confronto politico per affermare la forza di chi è minoranza, ma di assecondare la libertà individuale di autodeterminarsi sulla base di ciò che offre il Mercato. Nel primo caso, la minoranza combatte; nel secondo, la vittima-consumatore protesta.

5. La dinamica carnefice-vittima assume così delle sfumature che rendono il quadro meno netto. Nella rappresentazione di Girard (1961), si configura in termini di desiderio mimetico[9] del carnefice rispetto a un bene o una proprietà di cui la vittima dispone. Il primo vuole qualcosa che ha l’altro.

È possibile descrivere questo complesso persecutorio-vittimario attraverso un triangolo: chi desidera (carnefice) – cosa si desidera (Oggetto) – concorrente (Capro espiatorio – Vittima).

Se è vero che la vittima girardiana è innocente[10], polarizzatrice suo malgrado di tensioni e violenze in seno alla comunità di riferimento – capro espiatorio appunto – il cui sacrificio si presume capace di ristabilire l’ordine e la pace nella comunità stessa, essa ha sempre una certa contiguità con la colpa, pur rimanendo sufficientemente innocua; ciò permette il suo sacrificio senza correre pericoli di rappresaglia (Girard, 1972).

Ha spesso qualche caratteristica o competenza che la rende esotica, vagamente inquietante (portatrice di un segno fisico particolare, straniera, appartenente a una minoranza, licenziosa, ecc.), che in buona sostanza le permette di conquistare specifici privilegi, che consistono, nelle varie mitologie, nel favore di un Capo o nell’accesso esclusivo a beni materiali (Girard, 2016).

È evidente che nella dinamica del capro espiatorio è fondamentale rintracciare il terzo, il vertice del triangolo, l’oggetto del desiderio posseduto dall’altro (il capro espiatorio stesso), che scatena la violenza di massa (idem).

L’Oggetto del desiderio è il luogo di un Potere.

Il Potere ce l’ha chi può determinare le scelte altrui. Può essere una donna contesa, un capo di Stato, un miliardario. Nella cultura contemporanea, tuttavia, tale polo sembra irraggiungibile, un telos asintotico; e più è asintotico più scatena la ferocia competitiva con tutto il suo corredo di violenza.

Il principio neoliberista è psicologicamente e compulsivamente immaginario, promette un riconoscimento assoluto di valore, in cui l’altro è concorrente da avversare senza requie (cfr. Mignosi, idem).

L’Oggetto del desiderio qui si configura nel potere di uno sguardo; uno sguardo idealizzante che permette al concorrente vincente di rispecchiarsi, finalmente eletto. Tale sguardo può arrivare dal riconoscimento dei social come da un Amministratore Delegato; da chiunque o qualsiasi cosa possa mostrare una preferenza, un encomio, una promessa.

Ma il privilegio che ne scaturisce non può che rivelarsi in tutta la sua ambiguità: il concorrente vincente finisce per non possedere nulla, ma essere posseduto dal potere.

Essere amato/apprezzato/riconosciuto/guardato esclusivamente o prevalentemente, espone a una passività regressiva[11].

Se dovessimo mettere in parole la rabbia del perdente frustrato, potrebbero essere le seguenti: “io faccio di tutto, mi sacrifico, rinuncio a tutto pur di avere ciò che mi spetta, mentre quell’altro, senza merito, senza fatica, sprezzante, riceve tutto per sé e indegnamente”.

Il costrutto del desiderio mimetico trova nell’attualità adeguata applicazione, con i dovuti accorgimenti.  Carnefice e capro espiatorio sono concorrenti – perdente l’uno, vincente l’altro – di una partita spietata governata dall’arbitrio di una cultura pervasiva del merito, della competizione, dell’autodeterminazione assoluta.

La rabbia del carnefice (la massa inferocita nella prospettiva di Girard) nei confronti del capro, scaturisce dalla percezione di una sua singolarità che si accompagna a un’insopportabile astuzia che permetterebbe al secondo di ricevere ciò che il primo avrebbe voluto per sé.

Vale la pena sottolineare che la dinamica attiene alla realtà, ma che tale realtà è la manifestazione di dispositivi artificiali della cultura in oggetto.

De Carolis (2017) ci ricorda come la catallassi[12] neoliberista non esprima alcuna intenzione genuinamente concorrenziale – la concorrenza vale per la plebaglia più o meno fortunata, il soggetto della biopolitica (Foucault, 2004) – ma serva ad accrescere la dynamis nei luoghi del Potere di cui sopra, in modo da ridurre le possibilità di scelta di capro e carnefice, a quelle che favoriscono chi quel potere già lo detiene.

6. Chi sono i capri espiatori del nostro tempo? Per rispettare i criteri acutamente indicati da Girard, come detto, devono promettere innocuità in termini di rappresaglia e avere una qualche contiguità con la colpa. Inoltre, in quanto vittime, devono essere minoranza, mai espressione di una maggioranza-massa, sia pure dolente e in crisi. La persecuzione contro il capro è invocata dalla comunità per la comunità.

Potremmo dire che il capro espiatorio del neoliberismo è, intanto, colui che ce l’ha fatta senza merito, ma con furbizia, quindi invidiato e odiato: direi la più comune delle circostanze nell’agone competitivo antisociale contemporaneo. Basta aprire un social, accendere la tv, gironzolare nel web, e rintracciare miriadi di siffatti prodigi: influencer prosperose, youtuber con una trovata vincente, politici con l’entratura giusta, giornaliste chiacchierate, colleghi o compagni di scuola ruffiani, favoriti o apparentemente tali.

Tuttavia, questo capro prosaico dei nostri tempi, per configurarsi effettivamente come tale, deve essere ‘assolutamente’ e non ‘abbastanza’ innocuo; deve, cioè, poter essere infangato e demolito psicologicamente o fisicamente, senza incorrere in eventuali ripercussioni.

Fra l’altro, la dinamica proposta non si esaurisce certamente in questa mediocre casistica dell’ordinario. In essa si può rintracciare l’impulso emozionale di fondo, che trova però espressione socialmente rilevante in fenomeni di portata e intensità più serie.

Senza girarci troppo attorno, eccone due esempi: “no vax” e “migranti”. Tralascio per il momento le contestabili etichette che ho intenzionalmente adottato per indicare due categorie difficili da profilare e che comunemente vengono utilizzate non già per chiarire, ma per mistificare.

Si pone, in questa prospettiva, la necessità di sviluppare un ragionamento sull’emergenza di una violenza che sposa tanto la massa tanto l’individuo, che non può che essere strutturale, necessitata da questa dinamica vittima-carnefice.

Mi riferisco a polarizzazioni di un’aggressività sociopatica che solo per questioni di punteggiatura interna all’ordine neoliberista, può essere percepita come attiva o reattiva. Censure, discrediti, abusi, coercizioni, emarginazioni, e ogni tipo di infamia e spietatezza costituiscono ormai un modus operandi scontato in quella che si percepisce come la parte più sensibile, democratica e civile del pianeta; e di ciò siamo attori tutti, in qualsiasi luogo del continuum politico-sociale ci collochiamo.

A questo proposito, le etichette riportate in nota 4, se usate come strumento in malafede, distruttivo, per far fuori qualcuno con la scusa di essere un apostata della civiltà, perdono la funzione argomentativa. Invece di giudicare, colpiscono per eliminare ed esiliare culturalmente.

Del resto, se bisogna difendersi dalla violenza di parole come negro, frocio, storpio, puttana[13] e tutti i loro derivati, la violenza pare inevitabile. Ma proprio a questo punto si insedia il principio neoliberista: invece di rimuovere sistematicamente il fondamento aggressivo e sprezzante dell’altro (giacché mio diretto concorrente), che scoraggi sinceramente l’uso di certe parole così offensive, organizzando una vita collettiva all’insegna della condivisione, della cooperazione, dell’autonomia, della solidarietà, del disinteresse, della libertà, ne ha strutturata un’altra, avida, vile, opportunistica, narcisistica, ipocrita.

In un simile sistema, al violento non si può reagire con coraggio, ma con scaltrezza, astuzia, provocazioni, disprezzo.

Il reciproco della violenza esplicita è una violenza implicita, che però non ha alcun potere di invertire le sorti del conflitto, perché non fiacca l’avversario, lo provoca, lo avvelena, aumentandone la virulenza; qui il paradigma vittimario è lancia e scudo di una strategia a mio avviso destinata a non resistere per molto alla rabbia della massa.

“Fazioni” reazionarie e progressiste riempiono l’arco politico-sociale (e parlamentare) “dentro la scena” per esse realizzata dalla mente-macchina neoliberista. Ma non lo sanno, forse.

7. Procedendo con ordine e rimanendo prossimi al modello girardiano, le fazioni di questa scena possono essere assimilate a un figlio prediletto e ad uno negletto[14], che “vestono l’abito” della vittima e del carnefice, del capro espiatorio e della massa inferocita. Entrambi, tuttavia, si pongono al cospetto di un padre irraggiungibile e indiscutibile, collocato nel luogo del potere neoliberista.

A partire da questa composizione è possibile descrivere tutta la violenza di cui sopra, che si gioca tra il polo progressista e quello reazionario. Il secondo è quello che esprime il vissuto del figlio negletto, del secondogenito maltrattato, disprezzato, che invidia il primo ed è geloso della sua intimità col Padre; il polo progressista da voce, appunto, al primogenito, insolentito e infastidito dall’altro.

Il figlio negletto ha destinazione fascistoide, quello prediletto, liberal; l’orizzonte del primo è oscurato dall’altro, che davanti a sé ha invece solo una sterminata terra di conquista pronta a rispecchiarne il primato.

I negletti del fronte fascistoide sentono di dover dare continuamente battaglia, pungolati da un sentimento di inferiorità permanente ed esposti al sospetto di essere stati sminuiti. È per costoro impossibile esistere se c’è pure l’altro, perché l’altro oscura la loro visibilità agli occhi del Padre. La figura d’autorità (Dio, Patria, Famiglia) ha qui a che fare proprio con il desiderio di esserne gli unici latori, ubriacati da un narcisismo passionale, osteggiato, alla conquista di ciò che meritano. I negletti sostano nella tensione all’accaparramento dello sguardo del Padre – da intendere in chiave di oggetto-sé – in uno slancio transferale idealizzante e, come conseguenza, speculare (Kohut, 1971).

Per il liberal prediletto la battaglia è una volgare offesa al proprio primato, avvinto com’è in un sentimento di superiorità permanente, proteso ad annullare qualsiasi fonte di turbamento riguardo all’egemonia economico-culturale che sente legittima. Il diritto all’autodeterminazione assoluta, ontologica, è per costui indiscutibile, ancorché impraticabile. È inevitabile che si senta sistematicamente intralciato, offeso, leso, appunto vittima. Come detto in precedenza rispetto ai figli del nostro tempo, chi ritiene di essere eletto è il destinatario di uno slancio idealizzante che si riflette poi all’esterno in un rispecchiamento narcisistico strutturale, a-conflittuale, a-passionale (cfr. idem). L’ala cosiddetta liberal, progressista, persa ogni ambizione di lotta sociale, esprime soltanto e pertanto una violenza antipopolare (cfr. Crosato, 2022; Canfora, 2022).

Difatti, i negletti accusano i prediletti di arrogarsi un’autorità morale, viceversa i secondi accusano i primi di analfabetismo funzionale. Tutto ciò da spazio a un circo del rancore e dell’annichilimento, in cui il fascistoide non tollera che ci sia qualcuno prima di lui e l’antipopolare che ci sia qualcuno a parte lui.

Fronte fascistoide e fronte antipopolare sono entrambi nel solco della deriva liberista, senza uno straccio di prospettiva comunitaria; rimangono miopi, ignorano le ragioni che hanno determinato lo scenario in cui manovrano e sono manovrati, continuando a odiarsi dalla stessa parte del tavolo (cfr. Mignosi, ibidem). L’uno spudoratamente offensivo, abituato all’impresentabilità, l’altro indignato, conformista, aristocraticamente borghese.

8. In relazione a queste ultime riflessioni, alle etichette woke (vedi nota 4) e a quelle imperdonabili (vedi nota 12), aggiungerei quelle proprie del neoliberismo, che possono essere adottate bi-partisan (sebbene abbiano comprensibilmente maggiore feeling con il fronte antipopolare): analfabeta funzionale, no vax, sovranista, complottista, negazionista, populista, putiniano, rossobruno, ne rappresentano un congruo campione, finendo per sterminare tre quarti della popolazione.

Ciò che di fatto accade nello scenario pubblico è che qualsiasi istanza critica finisca per essere screditata attraverso il ricorso a simili categorie. I difensori della democrazia, della legalità, dell’inclusività, sempre attenti a non calpestare le aiuole, a esportare “armi non letali” (sic), promuovere missioni di pace con gli eserciti[15], affiliati alla governance neoliberista, di fatto proteggono lo status quo, disinnescando ogni possibilità di obiettare.

Come detto, simili etichette tornano utili solo se ci si ferma alla superficie, quali termini di un qualunquismo sconfinato, per marchiare ed escludere, tutto però con le dovute maniere.

Tante persone sono state in qualche modo condizionate ed estromesse dalla vita sociale, sulla base di simili marchi d’infamia, negando ad esse qualsiasi scrupolo di significato, il rispetto per l’unicità della persona e della propria scelta.

Il potere dell’etichetta sta tutto nella sua evidenza, rispetto alla quale bisogna stare attenti a non inciampare. In questo si concretizza l’ipocrisia insopportabile di questa cultura: per essere ammessi non bisogna essere per bene, ma mostrare di esserlo.

E in questo senso, ogni persona dotata di tridimensionalità non può che essere esclusa o limitata.

L’ipocrisia, va riconosciuto, è indissolubilmente legata alle forme di governo ed è storicamente un dispositivo del potere (cfr. Mazzone, 2020), ma questo non giustifica l’inerzia che ci conduce a tollerarla e a promuoverla. Se continuiamo a discutere di un calcio giocato su un campo inclinato e con un pallone da rugby, ignorando questo presupposto, ne risulta un discorso assolutamente sterile,  come quello della politica contemporanea (Mignosi, ibidem).

Il livello di dissociazione tra dichiarazione ufficiale e politica reale è oggi talmente accentuato da risultare imbarazzante. Come accennato, è possibile compiere un azione di aggressione fisica esplicita, mentre la si dichiara di pace; è possibile obbligare qualcuno ad assumere un farmaco, attraverso le mentite spoglie di un consenso volontario e informato, senza cioè che lo Stato se ne attribuisca l’onere; è possibile costringere degli essere umani a rischiare la vita in mare e nel deserto, mentre ci si appronta per soccorrerli. Tanto gli attori di queste contraddizioni, tanto gli spettatori (i cittadini tutti e le vittime designate) appaiono completamente negligenti rispetto a tale evidenza, al punto da ritenere che sia in azione, da molti anni ormai, un potentissimo meccanismo di negazione.

9. Si dirà: “va bene, ma i no vax sono dei pericolosi ignoranti, spesso hanno pure un sacco di soldi, come ti permetti di paragonarli ai migranti che subiscono evidenti ingiustizie?”

Per rispondere a questa obiezione è opportuno tornare alla chiave interpretativa che ho proposto in queste pagine.

Prima ancora, tuttavia, ribadisco che metterla sul piano di una graduatoria delle sofferenze (e delle ingiustizie che le hanno generate) è uno dei capisaldi della delegittimazione per via vittimaria, che Chaumont (2010) definisce “concorrenza delle vittime” (in Giglioli, ibidem). È del tutto evidente che poche persone scambierebbero il proprio licenziamento con una traversata nel deserto e per mare di migliaia di chilometri, in condizioni disumane; non per questo motivo possiamo escludere che alcune cose accadano e siano accadute, e che possano essere connesse nell’ambito di una cornice storica, politica e culturale; mi sembra una riflessione ammissibile, che non giustifica alcuna indignazione.

Fatta questa premessa, in una complessa dinamica triangolare, in cui il sistema di potere dispiega un arsenale comunicativo, persuasivo, discorsivo, pervasivo, incontrastato, che accredita un soggetto del ruolo di eroe/vittima e addebita a un altro quello di antieroe/colpevole, la partita è fatta; va solo premuto il pulsante play: invidie e gelosie per l’uno, richieste di punizioni esemplari per l’altro.

Sebbene la violenza di massa assuma, nello scenario qui proposto, sembianze fascistoidi, è bene precisare che la violenza alberga, quale principio sopravvivenziale, in tutto lo spettro politico-culturale e che i fenomeni sociali possono favorire un’inversione che polarizza in senso esplicitamente persecutorio l’altra fazione, che può così dismettere le vesti della vittima, per assumere, con argomenti e modi differenti, come accennato, quelle del carnefice.

Del resto, l’ala fascistoide e quella antipopolare, escludono entrambe l’altro, rimangono intrinsecamente antisociali. Cambiano i linguaggi, i modi, i riferimenti, ma lo schema generale no.

Difatti, nonostante il disprezzo per il no vax sia trasversale, è possibile riconoscerlo soprattutto nella fazione antipopolare.

La polarizzazione della massa contro il capro, ha così un orientamento che procede secondo dettami tipici di questa fazione culturale: con ipocrisia e moralismo. Il no vax è quindi pericoloso perché ignorante e riottoso alle Verità scientifiche.

Ma quale sarebbe il privilegio di questo sciagurato nella sua veste di capro espiatorio? Dire di no al vaccino. Dire di no alla massa. Nient’altro. È questo ciò che lo rende straniero, strano, misterioso.

Benché la fazione antipopolare abbia una passione incontenibile per lo ‘straniero buono’, credo che sia opportuno farsene una ragione: i capri espiatori possono essere antipatici.

“Ma contagia gli altri scientemente! è un assassino!”

E qui scivoliamo pienamente nella Storia della colonna infame di manzoniana memoria, in cui due presunti untori nel corso della pestilenza milanese del ‘600, vengono accusati, “giustiziati” e infamati con una colonna eretta in spregio alla loro memoria, che nel corso del secolo successivo fu poi abbattuta.

“Ma cosa c’entra?! Oggi conosciamo scientificamente i modi e le cause del contagio. Allora no”. Al netto dei dubbi sulla validità e sicurezza dei vaccini, come detto, legittimamente oggetto d’indagine, le fantasiose e contraddittorie compulsioni protettive esposte al punto 1 (ce ne sarebbero molte altre), ci rassicurano ben poco sulla ragionevolezza medico-scientifica con cui la popolazione e le istituzioni hanno pensato la difesa dal contagio. L’efferatezza con la quale sono stati attaccati non solo i renitenti al vaccino, ma anche gli obiettori più moderati, intellettualmente e scientificamente non sprovveduti, non trova alcun fondamento razionale, bensì pregiudiziale e umorale.

Ma c’è un aspetto più inquietante che va messo in evidenza nel rispondere all’obiezione basata sul fondamento scientifico. La stragrande maggioranza della popolazione che ha accettato il vaccino (in prima, seconda e terza dose), che in buona sostanza dovrebbe averla protetta dai sintomi più severi, prese le adeguate precauzioni fisiche, quando già l’ondata più virulenta era trascorsa, e il ‎SARS-CoV-2 era mutato in senso benigno come previsto, cosa avrebbe dovuto temere? La sorveglianza e la ricerca attiva dei renitenti, a cosa è servita scientificamente? A mio avviso, a nulla; solo a perseguitare l’alieno.

Uno che va in giro, che si concede sprezzantemente adunate (sediziose?) e non si contagia, non muore, è un alieno. E se non lo è, rischia, con la sua sopravvivenza, di mettere in discussione la narrazione catastrofica.

Lo zelo persecutorio contro gli ignoranti, rozzi, negligenti, contro il volgo bue e superstizioso, che si affida agli scientismi dei ciarlatani, esprime una parzialità che è propria dei miti fondativi studiati da Girard.

Quante di queste accuse contro i cosiddetti no vax (anche se vaccinati), potrebbero essere affibbiate a taluni “pro vax” (altra categoria insulsa che tuttavia inserisco per comodità espositiva): livorosi, pronti a recidere qualsiasi legame amicale o familiare, sostenitori dell’estromissione dell’alieno dall’ombrello del Sistema Sanitario Nazionale, dal circuito produttivo e sociale, capaci di considerare la controparte come dei sorci da lasciare morire in cattività, da mandare in galera, che meritano di morire.

Ciascuna di queste sconcezze è circolata in tv e in rete, propalata non dalla parte meno presentabile dei giusti, ma da laureati, cittadini comuni, dalla famosa casalinga di Voghera. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni e, aggiungerei, di benintenzionati.

Quanti ignoranti e in malafede popolano le file dei giusti, in questo caso come in tanti altri.

Al capro espiatorio semplicemente non si concedono caratteristiche del resto comuni a tutti gli altri, perché le ragioni della sua persecuzione sono estranee a quelle millantate e risiedono in un pregiudizio passionale, alimentato, in questo caso, dal tam tam mediatico.

Sarebbe bastato, con ragionevolezza, che le istituzioni di governo scoraggiassero la fede nella scienza quale dispositivo narrativo e avocassero la responsabilità di scegliere per il bene della popolazione, riconoscendo la difficoltà di comprendere un fenomeno di questa portata, sostenendo qualsiasi misura farmacologica anche parzialmente efficace, comunicando la scelta vaccinale con quel contegno, grave, prudente, che ci si aspetterebbe da un’autorità che decide, rischiando, per tutta la comunità. No, il messaggio è stato sostanzialmente: “ecco il vaccino che ci salverà dal virus, che ci garantirà di circolare tra immuni, senza contagiarci”, per bocca dell’allora Primo Ministro.

Ecco come una pur grave questione di politica sanitaria del terzo millennio, amministrata in tal modo, assume i connotati di un pogrom, di una violenza ancestrale di migliaia di anni fa.

10. Difendere l’antipatico no vax, rischia di precipitarmi nel novero degli impresentabili, ma difendere il capro espiatorio, quando è un immigrato irregolare, non è un gioco da ragazzi come sembra, se si guarda all’intera faccenda attraverso la prospettiva qui proposta, quella in cui la vittima è tale poiché figura in una costruzione dinamica più o meno complessa, e non soltanto perché vittima fisica di una sciagura.

Detto questo, è abbastanza evidente che la polarizzazione di massa contro il capro-immigrato origini da una narrazione fascistoide, quindi scomoda da proporre se non in ambienti protetti e per voce di figure sufficientemente potenti. Al contempo, se la rabbia anti-immigrato non trova adeguato riscontro e dimensioni espressive alternative, rischia molto facilmente di esplodere in una violenza fisica drammaticamente evidente.

Il desiderio mimetico, in questo caso, se guardato in superficie, assume una configurazione assai banale. L’immigrato “arriva e ci ruba il lavoro”, “si becca pure 35 euro al giorno”, “sporca”, “bivacca” e soprattutto “è una minaccia fisica”. In buona sostanza l’immigrato sarebbe manodopera criminale e a basso costo che degrada etnicamente il nostro paese. La massa fascistoidizzata lo disprezza e/o lo guarda con timore e sospetto; del resto è straniero. Direi, in questo senso, che è il capro espiatorio per eccellenza. Ma non possiamo limitarci a questa analisi.

Se il linguaggio e l’improntitudine sono reazionari, la mente-macchina nell’ambito in cui questa componente si sviluppa è neoliberista. Anche qui la vittima è maltrattata, e sicuramente vive in condizioni economiche, sociali, affettive, spesso difficili anche solo da immaginare per un nativo della comunità ospitante; rischia, infine, di morire in mare o in campi di concentramento dall’altra parte del Mediterraneo. Se è possibile chiamare in causa la radicale marginalità della “nuda vita” (Agamben, 2021) – perennemente in bilico tra la dimensione biologica e quella sociale – per il contagiato, soprattutto “asintomatico”, immaginiamo quanto sia calzante per chi si trova esposto a simili pericoli.

Pochi mesi fa l’attuale Ministro degli Interni, ha evocato un dispositivo merceologico nell’amministrazione degli sbarchi avvenuti presso le nostre coste: quello del “carico residuale”. Non voglio qui ribadire lo sconcerto per questa disumanizzante locuzione – si riferiva a quegli esseri umani non rispondenti ai criteri di ammissibilità all’accoglienza – ma mettere in evidenza, come già altri hanno fatto, la naturale conseguenza di questo provvedimento: rimettere in mare i sani li espone al rischio di ammalarsi e avere comunque diritto alle cure, in un secondo momento; solo che a quel punto sarà un problema di qualcun altro.

Questa vicenda ci permette di accedere a un discorso più articolato sul capro-immigrante, che possa svincolarsi dalla contrapposizione tra “poveri cristi” e “minaccia etnico-sociale”.

Ciò che il Ministro ha di fatto affermato è che, per essere accettabili, questi qui, devono stare male. L’orientamento così smaccato dell’Istituzione orientata in senso fascistoide, rende visibile un principio molto più generale che, solo per maggiore propensione all’infingimento, sembra non riguardare la fazione antipopolare.

Ma in effetti, a destra come a sinistra, gli extracomunitari piacciono solo se tapini. Probabilmente, la paranoia (a destra) e la mitomania (a sinistra) hanno trovato una convergenza in questo principio, che finisce così per essere discretamente resistente. Una parte esplicitamente, l’altra capziosamente, finiscono per concedere ospitalità e (finta) cura solo a chi appaia dolente, malconcio, innocuo, attirando le proteste e la rabbia invidiosa, gelosa, rivendicativa dei ‘comuni mortali’ di casa nostra. Ed ecco riaffermarsi la dinamica vittimaria, che è tale perché alimentata; come detto, la sofferenza oggettiva e soggettiva di chi vive esperienze così dolorose non è in discussione; in discussione è la costruzione di uno scenario legislativo, amministrativo, giuridico, politico-sociale, mediatico, che porta in ostensione la “vittima” – non differentemente da come accade nel guilt appeal – con il carico di “ragioni” e “rassicurazioni” che sembra garantire bi-partisan.

Eppure l’equilibrio tra fazioni è sempre precario, per le voci che rappresentano. L’immigrato malconcio è (mal)tollerato da una parte, amato dall’altra. Basta poco perché l’una lo riconosca come quel concorrente vincente ed esotico della narrazione girardiana, che tanto piace all’intellighenzia, che i governi sembrano accogliere a braccia aperte, concedendogli ciò che la massa autoctona non riceve. Tale massa inferocita che addita il capro espiatorio, nel suo immaginario paranoico, non coglie una ovvietà – che autoctoni e stranieri sono entrambi poveri, sempre più poveri, messi gli uni contro gli altri – ma ne coglie un’altra: “questo qui sta male adesso, ma quando starà bene, sarà un problema per tutti noi”. Quel fascista ignorante del salumiere dell’estrema periferia di una qualsiasi città italiana, sa che chi sta male oggi, starà bene domani. È un odioso baluardo contro il paradigma vittimario. E se appare fascista è solo perché il protocollo neoliberista non prevede socialisti o sentimento di comunità non paternalistico.

A questo, al paternalismo, provvede la fazione antipopolare con operazioni politiche e comunicative certamente più sofisticate di quelle della controparte.

Partirei da una domanda da uomo della strada: possiamo far prendere un comodo aereo a queste persone, siano essi emigranti economici o rifugiati? Costa meno e arrivano sani e salvi (e sottolineo sani).

È notorio che il passaporto di un paese povero del mondo, equivalga a un bloccaporto. Arrivare in aereo in Europa da paesi come Etiopia, Nigeria, Somalia è un grosso problema, e l’ottenimento di un visto è subordinato a criteri economico-lavorativi improponibili per molti cittadini africani che, così, finiscono per fare i ‘viaggi della speranza’. Ma chi li stabilisce questi criteri di esclusione per i cittadini del cosiddetto Terzo Mondo? Le compagnie aeree non hanno alcun interesse ad applicarli: per esse, un passeggero che spende 1000 euro per un volo potrebbe anche arrivare dall’inferno. Sono costrette ad applicare norme stringentissime, imposte, nel nostro caso, dall’U.E.

Eccoci in uno dei cuori pulsanti della mente-macchina neoliberista – qui nella sua veste ordoliberale – che costituisce un Fronte Unico delle disuguaglianze, foriero di competizioni spietate anche a costo della vita; tuttavia, il congegno diabolico che è riuscito a edificare, permette alla regione ospitante di generare i presupposti di ingiustizia e disumanità ai quali provvede proponendosi quale buon samaritano (o riluttante, se di destra) che soccorre il bisognoso, la vittima.

Tutto questo per non parlare degli ostacoli fisici, a parte le strettoie economico-burocratiche; faccio riferimento agli accordi italiani ed europei con paesi ‘guardiani’ (Libia, Turchia), affinché blocchino i flussi attraverso il ricorso a mezzi che si traducono immediatamente in strutture di prigionia.

L’immaginario e la retorica del cadavere del bambino sulla spiaggia, della madre con il neonato stremati a Lampedusa, dei corpi affondati, rinchiusi da qualche parte in Libia, della calda mano del soccorritore che accarezza l’immigrato, costituiscono a mio parere la massima forma di Ipocrisia occidentale a impronta vittimaria. Personalmente la trovo insopportabile.

“Ma cosa possiamo fare? Anche con tutte le buone intenzioni, mica possiamo fare arrivare tutti quelli che vogliono in aereo. Verrebbero a milioni!” Non è un problema mio, mi verrebbe da dire, ma non lo dico. Certamente se la vita umana è sacra, da quando la nostra civiltà lo ha stabilito, dovrebbe essere prioritario evitare che le persone soffrano e muoiano; il fondamento dovrebbe essere la rimozione dei presupposti di questo genocidio rateizzato, non il soccorso. Tuttavia, faccio fatica a immaginare che i cittadini africani e asiatici possano decidere di non partire, se non cambiano radicalmente i presupposti culturali ed economici di questo impianto capitalistico globale.

Né è possibile accettare, a mio avviso, la narrazione “migratoria” secondo la quale la gente si è sempre spostata nel corso della storia e non c’è niente di male. Fino alle scuole medie è possibile sostenerlo. È un altro modo di accettare lo status quo ed è del tutto evidente che solo ai piani alti dell’ultraliberalismo si possa immaginare una prospettiva del genere, lasciando a chi sta in basso il compito di fare quel che si può.

È molto romantica l’immagine del “migrante” che si sposta come un uccello, liberamente, per andare e tornare, secondo competenze inattingibili. Ci sarebbe la storia. Ci sarebbe la cultura. Con tutto quello che comportano.

Emigrato e Immigrato “fanno brutto”. Meglio migrante; così non abbiamo l’onere di guardare la loro lacerazione e la loro assimilazione. Anche in questo caso è solo per proteggere la nostra borghesissima e infantile coscienza, che abbiamo smesso di usare certe parole.

A volte immagino la completa rimozione dei vincoli di cui sopra; migliaia e migliaia di persone che si riversano nei nostri aeroporti, nelle nostre metropolitane, nelle nostre città, non malconce, ma ben nutrite, pulite e vestite in modo strano, magari sguaiate, eccitate. Certamente ne rimarrei colpito e forse avrei bisogno di tempo per accettarlo; senza chiamare in causa razzismi di varia sorta, semplicemente perché i cambiamenti improvvisi colpiscono la nostra persona sempre, e avere reazioni emotive, sentimenti e pensieri più o meno conflittuali, non è roba che si possa comprimere in una categoria biasimevole.

Ma non accadrà. Non ci sarà nessuna ‘invasione’. Le ragioni fascistoidi e antipopolari, come il bastone e la carota, sapientemente governano le cose così come devono andare. Continueremo quindi ad assistere a icone di sofferenza e bontà. “Questi si beccano 35 euro al giorno”. “No no per carità, vi assicuriamo che stanno male!”.

Ironia a parte, se è difficile immaginare che i capri espiatori possano essere antipatici, considerando i no vax come tali, è altrettanto difficile immaginare che lo siano gli immigrati irregolari. La vicenda del presunto illecito di cui è accusata la compagna di Aboubakar Soumahoro, attivista, sindacalista e deputato che difende la causa dei braccianti extracomunitari maltrattati nei nostri campi, è esemplare. La disapprovazione che lo ha investito è caratterizzata da una “aggravante” emotiva di natura borghese. Così come a un no vax non è concesso di essere ignorante, a un immigrato non è concesso di commettere irregolarità amministrative o fiscali. Perché anche in questo caso egli è un pària, sostanzialmente un essere marginale, bersaglio di un pregiudizio ontologico.

11. In entrambi i casi, no vax e immigrati, vestono l’abito del capro espiatorio perché rappresentano una maledizione, capace di fare fuori fisicamente o culturalmente, come detto, i comodi cittadini di una delle regioni privilegiate del pianeta.

Ma la minaccia fisica, culturale, politica, sociale, economica all’integrità/stabilità del nostro mondo, può arrivare da tantissime fonti, e per ciascuna esiste un’etichetta – di destra, di sinistra, o di unità nazionale – che attiva un cortocircuito vittima-colpevole-vittima (gay, putiniani, comunisti, complottisti, terrapiattisti, ecc.). È compito della vittima designata sottrarsi a questo gioco, rinunciando a essere patetica e patita, alla lamentazione; mostrando di avere altro da dire e da essere, accettando di non piacere a tutti e, perché no, mostrando di avere una forza.

Proprio l’uso della forza costituisce oggi grande motivo d’interesse perché, se da un lato è stato ed è ancora negato, scoraggiato, per affermare il più maneggiabile paradigma vittimario, dall’altro – proprio in relazione ai fenomeni globali degli ultimissimi anni e alle loro conseguenze politico-securitarie – è sempre meno trascurabile, e affiora come una pulsione non adeguatamente arginata da strutture difensive.

L’azione governativa dell’UE (ma non solo) che muove da dichiarazioni di inclusione, apertura, moderazione, ascolto delle fragilità, fa il paio con l’adozione della vittima quale simulacro strumentale e incline a farsi strumentalizzare.

Ciononostante, il neoliberismo è ordito dalle fondamenta in chiave appropriativa ed egoistica, teleologicamente plutocratico e sprezzante di qualsiasi tentazione socialista; è quindi estremamente aggressivo. Ha sposato – in un matrimonio di convenienza – la cultura liberal dei diritti civili, che sta tuttavia contaminando con la sua vocazione alla violenza.

Il fenomeno fondativo del desiderio mimetico, architrave della ricomposizione pacificatrice e sanguinaria a un tempo, in seno alle comunità, non è più efficace come nelle antropologie tradizionali, né serve che lo sia. La massa persecutoria è sempre più frammentata, mentre la vittima pare meno innocente.

Ciò accade perché i fili del burattinaio si vedono; i cittadini disincantati saranno pure passivi, ma sanno bene di esserlo (come un tossicodipendente può essere consapevole della sua condizione, nonostante la sua impotenza).

La violenza della massa è la violenza del vertice del triangolo mimetico, organizzata in funzione del suo progetto.

Il disprezzo di fondo che comunica la cultura neoliberista tanto ai concorrenti vincenti, tanto ai perdenti, è camuffato proprio dall’aura virginale che attribuisce a taluni capri espiatori. Tuttavia, in una sorta di epifania antigirardiana, se i capri non sono più innocenti, perdono i privilegi del caso e lo sdegno nei loro confronti può liberarsi senza ritegno. È successo ai no vax; e succede a qualsiasi minoranza che non si presti al vittimismo.

Accade infatti a tutti quegli immigrati che non stanno al gioco; del resto, per farli stare al gioco, basta mantenerli in una posizione di sottomissione reiterata, di stenti, costringerli perennemente ad arrancare.

Come ho già sostenuto (ibidem), i padroni del vapore disinnescano qualsiasi posizione “attiva” della popolazione, attraverso ogni dispositivo possibile, soprattutto per mezzo di narrazioni e disciplinamenti tesi al suo rabbonimento.

“No alla violenza senza se e senza ma”; quante volte l’abbiamo sentito dire. Così come altre retoriche tese ad ammansire, con l’evidente finalità di mantenere lo status quo, di non far uscire le mucche dal recinto.

Anche le crisi del neoliberismo, a tal proposito, con il loro carico di teste che saltano, svendite, licenziamenti, cure da cavallo, indebitamenti cronici, prelievi forzosi, non rappresentano inciampi indesiderati cui provvedere, ma strutturali e funzionali forme di escalation, che ripropongono la necessità di stringere ulteriormente la vite della sua ideologia sui concorrenti pezzenti (cfr. Dardot e Laval, 2016).

L’atomismo competitivo, che promette e minaccia crediti immaginari infiniti, è un simulatore di violenza che ha sostituito la realtà, ma che realmente sacrifica le persone. Il circuito del consumo e della consunzione è attivo e logicamente svincolato da calmieri di sorta, ancorché si sviluppi nell’ambito di misure cosiddette di interesse pubblico.

12. Esiste una lunga tradizione filosofica e antropologica, prossima o corrispondente al poststrutturalismo, che approfondisce un’illusione: l’esistenza di qualcosa di originario, autosufficiente. Qualsiasi natura o principio delle cose, reca sempre un “supplemento” (Derrida, 1967; Girard, 2016; Butler, 1997), un eccedente che è tale solo in virtù di una esclusione dalle strutture ‘positive’. Qualsiasi discorso ha origine da una censura, ancor prima di incorrere in quella agita repressivamente dai sistemi di potere (Butler, ibidem).

Il circuito di affermazioni costituzionali e antagoniste, norma e opposizione alla norma, è inscindibile. Ogni discorso è organizzato sul suo supplementare, un altro che intende negare, rifiutare, ma da cui sviluppa il motivo e la traccia della propria affermazione.

Nelle intenzioni dei giusti, abita il principio dei colpevoli. Dietro la ragione abita l’eccesso. Ogni argomentazione antirazzista ne sottintende una razzista. Per esistere devo negare ciò che non sono (o credo di non essere).

Ma ogni operazione linguistica è, in questo senso, esito di una forclusione primordiale, per dirla con Lacan (in Butler, ibidem), non certo un Ordine autoconclusivo, che non prevede alternative.

Il ricorso alla propaganda sulla e della vittima, al contrario, sembrerebbe suggerirlo.

È nell’impianto neoliberista che le rappresentazioni monopolistiche e unipolari trovano oggi la loro massima espressione; ma soltanto se alla vittima si riconosce la sua dynamis e il suo discorso è possibile superarne la visione archetipica, metastorica, e permettere così che anche i suoi aguzzini abbiano qualcos’altro da dire.


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Note

[1] La pandemia da Covid-19 e la guerra russo-ucraina, tra tutti; ma faccio più in generale riferimento a tutti i fenomeni globali o estesi che attivano masse di cittadini.

[2] La contiguità temporale tra i due fenomeni non è certamente da sottovalutare. Le coincidenze esistono, come la Spagnola che funestò le trincee del ’14-’18. Ma così come le condizioni di precarietà (igienica, alimentare, ecc.) e assembramento alimentarono verosimilmente quella pandemia, non possiamo liquidare l’avvicendamento covid-guerra come banale accidente. Ritengo tuttavia opportuno lasciare a chi è più competente l’analisi di eventuali correlazioni fattuali.

[3] Necessità che anche l’EMA, per voce del responsabile alla strategia sui vaccini, ritiene dannosa rispetto alla risposta immunitaria.

[4] Fascista, razzista, maschilista, misogino, omofobico, transfobico, lesbofobico, queerfobico, abilista, TERF, ageista, ecc.

[5] Penso all’impiego di zelanti funzionari a cui affidare il compito di censurare dichiarazioni che possano essere anche vagamente connotate come discriminatorie.

[6] Una richiesta del tossiconarcisista è quella di cassare ogni eccezione al discorso vittimario/discriminatorio, ogni discriminazione/differenziazione, anche legittima e congruente. Esistere, in questa cultura, equivale a pretendere.

[7] Il legalitarismo securitario in Italia è indissolubilmente connesso alle stagioni delle violenze terroristiche di stampo mafioso e politico-deviazionistico. È ragionevole, a mio parere, correlare a tali accadimenti la disponibilità dei cittadini a escludere, censurare, abusare di forza e potere.

[8] Il Leviatano di oggi può non essere lo Stato (si pensi all’UE, alla Troika, ai Mercati, ecc.).

[9] Il desiderio di ciò che l’altro possiede è mimetico nel senso che intende essere come l’altro, con il vantaggio di status di cui lo stesso, quale modello, sarebbe portatore.

[10] Innocenza che diverrebbe esplicita nel martirio e nella religione cristiani (Girard, 1999).

[11] Come accade ai figli (anti)socializzati in senso narcisistico del nostro tempo, e di cui si è detto al punto 3.

[12] Con il termine “catallassi” von Hayek si riferiva all’ordine sociale e comunitario raggiunto e perseguito attraverso il libero scambio di mercato, senza alcuna interferenza dello Stato.

[13] Ho intenzionalmente evitato qualsiasi allusione mediata da asterischi. Guardare certi lemmi nella loro integrità, mi sembra coerente con l’analisi che sto qui conducendo. Innanzitutto qualsiasi pratica di studio e approfondimento transcontestuale dovrebbe essere svincolata da remore moralistiche o emotivistiche. Ma pur immaginando di lavorare come un medico di mille anni fa, ponendo il corpo del paziente dietro un velo pietoso, egli dovrà pur toccarlo. Fuor di metafora, la forma fr***o, non potrà mai evocare la parola ‘fresco’, proprio per la presenza degli asterischi; né può essere equivocata: deve necessariamente e univocamente evocare quella parola “che non si può dire”; è in buona sostanza un modo di strizzare l’occhio, fare riferimento a “tu sai chi” di potteriana memoria. Piuttosto, è fondamentale affermare che è il contesto nel quale si presenta l’etichetta che può dirci qualcosa sulle motivazioni che la attivano. L’uso degli asterischi non può rappresentare in nessun modo un’attestazione di buone intenzioni. Anzi, proprio la reticenza permette di evocare l’indicibile senza assunzione di responsabilità, rimanendo al riparo. È in qualche modo un amplificatore di oscenità. A meno di non immaginare l’azione di qualche sortilegio che ne sconsigli vivamente l’impiego, come nel caso di “Lord Voldemort”, l’uso di asterischi allusivi, alimenta la proliferazione intrapsichica e potenzialmente inconscia del contenuto rimosso. Immaginiamo una lezione di educazione sessuale per le scuole medie e immaginiamo che l’insegnante si arrampichi trafelato su perifrasi improbabili: alimenterebbe soltanto la curiosità pruriginosa piuttosto che conoscitiva; se, invece, di fronte a una lezione esplicita, i ragazzi iniziassero a sghignazzare, non avrebbe certamente nessuna colpa. Si dirà che gli organi riproduttivi non sono una contumelia. Sì, ma sia gli uni che l’altra, sono inestricabilmente espressione di dispositivi culturali e a questi io faccio riferimento; questi cerco di studiare. I genitali, non sono neutri pezzi di carne. Del resto, non conosco pezzi di carne che siano “neutri”. Qualsiasi cosa venga prodotta e riprodotta nel circuito antropologico non è più “puro” e naturale.

[14] Sarebbe meglio dire una massa di figli negletti e uno solo prediletto. Del resto, vale la pena ribadirlo, non si sta descrivendo un fatto, ma una rappresentazione che alberga negli attori di una scena.

[15] In Centocinquanta stelle, De Gregori canta: “E tirano certe bombe/Che sembrano dei giocattoli/Che ammazzano le persone/E risparmiano gli scoiattoli”. Non potrei esprimere meglio il concetto.